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  • Lunedì 30 agosto 2010

La conversione delle hostess

Il traffico di donne tra Italia e Africa ha una storia lunga e con un lungo tratto comune: il traffico di donne

di Filippomaria Pontani

Libyan leader Moamer Kadhafi (C) holds the hand of Italian Prime Minister Silvio Berlusconi as he speaks with a microphone in his hand next to a Roman statue of the goddess Venus in the eastern city of Benghazi on Libya's Mediterranean coast on August 30, 2008. Berlusconi apologised to Libya for damage inflicted by Italy during the colonial era and signed a five-billion-dollar investment deal by way of compensation. Italy also returned to Libya the statue, dating back to the second century, which was found in 1913 by Italian troops near the ruins of the Greek and Roman settlement of Cyrene, on the Libyan coast. Berlusconi's visit to Benghazi 1,000 kms (650 miles) east of Tripoli coincides with the anniversary of the coup that brought Kadhafi to power on September 1, 1969. AFP PHOTO/MAHMUD TURKIA
Libyan leader Moamer Kadhafi (C) holds the hand of Italian Prime Minister Silvio Berlusconi as he speaks with a microphone in his hand next to a Roman statue of the goddess Venus in the eastern city of Benghazi on Libya's Mediterranean coast on August 30, 2008. Berlusconi apologised to Libya for damage inflicted by Italy during the colonial era and signed a five-billion-dollar investment deal by way of compensation. Italy also returned to Libya the statue, dating back to the second century, which was found in 1913 by Italian troops near the ruins of the Greek and Roman settlement of Cyrene, on the Libyan coast. Berlusconi's visit to Benghazi 1,000 kms (650 miles) east of Tripoli coincides with the anniversary of the coup that brought Kadhafi to power on September 1, 1969. AFP PHOTO/MAHMUD TURKIA

Della rappresentazione simbolica che accompagna l’ultima spedizione romana di Gheddafi vorrei segnalare qui due aspetti, strettamente connessi tra loro: il ruolo del passato e il ruolo delle donne. Do per scontati, senza insistervi ulteriormente, i veri motivi del crescendo diplomatico fra Roma e Tripoli: motivi che attengono a un cospicuo fiume di danaro (pubblico, se parliamo delle partite di giro a beneficio dei nostri costruttori di edifizi e autostrade; fors’anche privato, se hanno fondamento i reportages che additano i profondi interessi economici che legano i due capi), e – cosa a mio avviso ben più grave – all’intervento sul traffico di esseri umani, ché non altrimenti deve esser giudicato l’accordo anti-sbarchi, grazie al quale africani d’ogni Paese sono stati bloccati nelle Strafkolonien del deserto libico, con tanti saluti all’accoglienza panafricana sbandierata nei verdi manifesti di Tripoli, e tanti saluti – per noi – al rispetto internazionale dei diritti umani, a cominciare da quello d’asilo.

I passati coloniali, beninteso, sono sempre molto scomodi da confessare e da rileggere. Da noi, per di più, il popolare mito degli “Italiani brava gente” è duro a morire, e non viene sostanzialmente scalfito, nella coscienza comune come nella gran parte dei manuali scolastici, dall’ormai preciso catalogo delle atrocità compiute dal 1911 al Governatorato di Graziani nelle sabbie della Sirte e della Tripolitania (oltre ai classici lavori di Angelo Del Boca, una buona introduzione al tema, con documentazione, fra l’altro, dei centomila morti e dell’yprite scagliata sulla Cirenaica, è il libro di Eric Salerno, Genocidio in Libia, manifestolibri 2005). Gli è che tale dibattito, più ancora che nella curvatura delle relazioni diplomatiche con la Jamahiriya, dovrebbe forse influire sulla nostra propria considerazione di uno spicchio del nostro passato, se non altro almeno per verificare se condividiamo ancora – a tacere delle antiche speculazioni razziali dell’oggi incensatissimo Giorgio Almirante – i non troppo obsoleti discorsi di Gianfranco Fini (2004) o di Alfredo Mantica (2001), secondo i quali il colonialismo italiano in Africa non si sarebbe macchiato di crimini rilevanti, e anzi avrebbe fornito alle popolazioni locali strade, lavoro e un modello di civiltà superiore. Vedremo mai in RAI (per ora è passato solo su Sky nel giugno del 2009) il ripetutamente censurato film Il leone del deserto (1980, con Anthony Quinn)?

Ma nella mascherata romana di questi giorni si consuma anche qualcosa d’altro: l’aspetto forse più sconcertante della visita sta nell’inedita cerimonia di conversione delle hostess, che ha almeno due facce: da un lato fornisce ottimo materiale per la televisione libica di regime (un regime, è bene ricordarlo, che tutto l’Occidente ritiene dittatoriale), dall’altro induce forse qualche problema di autocoscienza nel Paese che si presta a ospitare e a finanziare un simile spettacolo. Non può non sfiorare l’idea che fra le varie analogie che uniscono Gheddafi a Berlusconi (alcune brillantemente enucleate oggi da un triste Francesco Merlo) vi sia anche un certo modo di considerare la donna e il suo ruolo nella società.

Ad fontes: nel Libro verde, vademecum e fondamento ideologico della Jamahiriya, Gheddafi consacra un lungo capitolo alla donna. Dal suo periodare lutulento e ripetitivo, peraltro non dissimile dalla sua retorica verbale (almeno a sentire le anonime superstiti della performance di ieri), si enucleano alcuni concetti-cardine, come la distinzione di principio fra maschio e femmina, la predestinazione della donna al suo ruolo di madre, la condanna senz’appello della contraccezione e dell’aborto, la condanna non meno veemente degli asili (definiti come “squallidi allevamenti di pollame”) in favore dell’educazione casalinga nell’ambito familiare, infine la grande diffidenza nei confronti del lavoro femminile: «Poiché la natura le ha assegnato un ruolo diverso da quello dell’uomo, la donna dev’essere messa in condizione di adempiere al suo ruolo naturale». Come si vede, non è questione di veli e di lapidazioni: è questione di un preciso disegno politico.

Qui siamo: è come se il principale mercificatore del corpo femminile nel mondo occidentale avesse trovato un inatteso punto di convergenza con il patriarca di certa Africa islamica: le donne vanno considerate essenzialmente per la loro funzione biologica o per il loro aspetto fisico (insomma: per l’hardware), e pazienza se le nostre civiltà si sono evolute in direzioni diverse così da spogliare le une e velare le altre; un compromesso, di volta in volta, si trova sempre, come si evince dalle direttive dell’agenzia “hostessweb.it“, che consigliava per le candidate uditrici un abbigliamento elegante ma “soft” – chi abbia visto le foto delle signorine convenute sulla Cassia, e abbia avuto la fortuna di girare per le vie di Bengasi, può fare un rapido confronto tra i nostri tailleurs e i peculiari prêt-à-porter in uso laggiù.

Nel Paese di Videocracy, dove le soubrettes diventano ministre e la quota di donne impiegate (lo ricorda oggi l’OCSE) è tra le più basse dell’Occidente, anche questo show, che svende decenni di conquiste nella lotta per la parità fra i sessi, ha un suo senso, una sua cittadinanza. Ma sarebbe molto interessante se i maschi coinvolti affrontassero, senza facili ironie, altri temi scomodi del passato che non passa, per esempio la questione del ruolo e dello status delle donne indigene nelle campagne italiane in Africa. È infatti molto raro che qualcuno ricordi, accanto all’architettura di cui abbiamo insignito Asmara e Addis Abeba, altri omaggi di noi sapidi coloni, come l’istituto del “madamato”, o peggio le pratiche inflitte alle giovani “faccette nere” prima e dopo il formale divieto (conseguente alla proclamazione dell’impero nel 1936) di commercio sessuale con le indigene per i soldati e coloni, preziosi depositari della purezza della razza.

Molto si potrebbe imparare da una recente indagine di Nicoletta Poidimani (Difendere la razza, Sensibili alle foglie 2009), che si concentra soprattutto sull’Abissinia e l’Eritrea: nelle pagine di questo libro si possono discernere le abominevoli tappe del passaggio dal modello erotico-esotico dell’Africana da conquistare e civilizzare, all’annullamento nazionalistico della donna etiope che diventa prostituta o, appunto, “madama”, concubina in relazioni tanto più illecite quanto meno fondate sulla violenza e lo sfruttamento (il sospetto di affectio maritalis era un’aggravante pesantissima per l’incauto italiota colto in fallo). A ben vedere, osserva la Poidimani, l’atteggiamento razzista che esaltava le “madri romane e fasciste” in nome del rifiuto del meticciato non è rimasto senza un séguito: a dispetto delle grottesche profferte del leader libico (“Venite a Tripoli a sposare i nostri uomini”), molta della retorica sulla “sicurezza”, e una parte del memorando “decreto antistupri” del 2009, tradiscono la più o meno diretta identificazione fra straniero e stupratore.

Sul corpo delle donne africane l’Italia ha scritto alcune pagine incresciose della sua storia; ora, sul corpo delle donne italiane un dittatore africano viene a dettare le sue condizioni per dirigere contatti economici sempre più pervasivi. Ancora una volta, per chiudere, torniamo al passato: l’Italia ha restituito alla Libia nel 1999 (per mano di Massimo D’Alema) la splendida Venere di Leptis Magna che ora troneggia all’ingresso del Museo della Jamahiriya, e che nel ’40 Italo Balbo aveva prelevato per farne omaggio (nientemeno) a Hermann Goering; nel 2008 (per mano di Silvio Berlusconi) è stata restituita la Venere Anadiomene trafugata dai nostri nel 1913 a Cirene. Due Veneri romane (anzi, fondamentalmente greche) abdotte e ricondotte in terra d’Africa. Sarebbe bello pensare che nel 2010 le donne in carne ed ossa sulle due sponde del Mediterraneo non funzionino come merce di scambio al pari di quei vetusti monumenti, lasciati secoli fa da conquistatori dotati di maggiore abilità e, certo, maggior gusto.