Balcone 2.0

Gipi in esplorazione tra i commenti, in cerca di risposte ai commenti

di Gipi

Sale sul balcone. Sotto di lui la folla, braccia alzate: Ooooohhh!
Prima della folla, prima che la prospettiva gli consenta di vederla, diciamo quattro passi prima di affacciarsi al balcone, avverte il respiro della moltitudine. Devono essere migliaia. “Sono migliaia, Signore”.
Sono persone, con cuori che battono e sistemi venosi. Piccoli processi, zuccheri che si infiammano, ma che, pur nel loro essere minuti, producono un moto. Quel moto, adesso, moltiplicato per migliaia, è percepibile, da qui, da quattro passi prima del balcone. Tre.
Il cielo e la luce bianca che manda. Un riflesso di rettangolo sul bordo della balaustra, che è di marmo bianco.
Ovazione. Un grido multiplo confuso eppure intonato su un’ unica scala di “oh”, lo accoglie.
Appoggia le mani sul parapetto del balcone. Avverte il marmo tiepido. Se non fosse marmo, pensa, se fosse stata di ferro questa balaustra, pensa, sotto questo sole scotterebbe come una pentola lasciata sul fornello.
Prende un respiro e sceglie dove cominciare a tenere lo sguardo. Dove lo si tiene, quando si parla a migliaia? A metà. Sospeso in aria. Sopra le teste, nel vuoto.
Prende per riferimento un edificio più lontano. Parla all’edificio.
Intelligente è il discorso e ben argomentato. Ci son questioni che in pochi fino ad oggi avevan sollevato. Bel ritmo. pausa giusta e punteggiatura senza fallo. Un bel discorso, come la folla, sotto lo aveva immaginato.
Forza ai lombi per raddrizzare la schiena. Una presa di distanza dal punto di orazione. Basta poco per far capire che è si è terminato. Un passo indietro. Scrosciano gli applausi delle mani, mentre commenti e inviti a rispondere ad altri problemi, a dare soluzioni, si mescolano di nuovo nel grande mormorio su due piedi, nella piazza.

Ogni mattina mi faccio del male. Mi considero immortale.
Così, partendo da questa considerazione, perdo tempo. Se un giorno il Signore volesse farmi il più bel regalo del mondo, dovrebbe darmi la coscienza piena della mia mortalità. Vorrei che mi desse un nuovo senso, un settimo, quasi di serpente, che frammenti lo scorrere del tempo in schegge appuntitissime, che mi si sfiorino nel corpo con il sangue, e che mi tengano all’erta di continuo, al ritmo di un “io sono il tempo che passa e non tornerò. Quindi regolati. non gettare via le ore e le giornate. Fai le cose più belle. Costruisciti.”.
Ma questo non succede. Mi sveglio convinto di essere immortale e (se non devo urgentemente lavorare) mi metto a perdere mattine intere leggendo articoli sul web.
Gli articoli sul web, a differenza di quelli sulla carta hanno i commenti dei lettori. Io leggo anche quelli. Ci sono 437 commenti. Li leggo.
Li leggo tutti. Passano le ore, ed il senso di serpente non si fa sentire. Spenderò questo secolo così, poi nel prossimo vedremo. Ginnastica, magari.
Il mio giro di lettura è, più o meno, sempre lo stesso: Parto da Repubblica. Vado sul Post. Il Fatto Quotidiano. A volte L’Unità. Spesso Il Giornale.
Leggo gli articoli. Seguo i collegamenti ai blog degli autori e leggo qualche pezzo in più. Se ci sono commenti, leggo anche quelli.
Posso andare sul sito di Grillo, se me lo ricordo. E andavo su quello di Antonio di Pietro, abbastanza spesso, almeno fino ai giorni dell’appoggio a De Luca.

Ci sono cinquecentosessantaquattro commenti. Li leggo.
Leggo i commenti, quelli delle persone senza firma, che sono rappresentate in rete da pseudonimi o nomi di battesimo con cifre appese che cerco sempre di capire se sono date di nascita, o altre cifre dai significati nascosti. Mi interesso a questo aspetto, quello dei nomi. Ci sono commentatori che ritrovo, di alcuni sono diventato grande estimatore. A volte guardo se, collegato al soprannome usato per lasciare un commento , si può trovare un indirizzo di posta elettronica. Si, perché vorrei scrivere a questi sconosciuti, a volte, e comunicargli il mio apprezzamento per i ragionamenti espressi, o per lo humour messo in pagina, dipende. I motivi possono essere numerosi.

Spesso, la mattina, faccio questo. Perdo tempo così. Se sono in un giorno ottimista cerco di consolarmi dicendomi che leggendo imparo delle cose, ma in realtà la mia idea di apprendimento sarebbe distante dal livello raggiungibile con il sedere sulla sedia e gli occhi sullo schermo.
Questo però non mi allontana. Non basta.
Sul blog di Grillo vado a vedere ora, in diretta, un articolo a caso.
Vediamo quanti commenti ci sono: (lascio la pagina del programma di scrittura, prendo il mouse, lo muovo verso destra, mi indispettisco perché si blocca, lo scuoto, muovo la freccia, vado sulla barra indirizzi del programma di navigazione, scrivo Bepp..).
Sabato 31 luglio, ore 13:00 in punto. Il primo articolo su www.beppegrillo.it porta il titolo:

“Tutte le strade portano a Woodstock 5 stelle”.
Ci sono, in questo momento esatto (ricarico la pagina, sono le 13:02) 803 commenti.
Non li leggerò tutti. Non leggerò neppure l’articolo, non ora, adesso sto ragionando d’altro. Questa è una operazione scientifica, se non si fosse ancora capito.
Guardo i commenti. Non li leggo. Li guardo soltanto, li scorro. Attuo una ricerca per vedere se, oltre agli ottocento e passa commenti si trovi una qualche replica dello staff del redattore dell’articolo. Una risposta, insomma.
Non c’è.

Cambio sito. Unità.it. So che cercando l’editoriale della direttrice, sempre seguitissimo, troverò moltissimi commenti. Questa sarà una cosa buona, ai fini della mia ricerca scientifica amatoriale.

“Le domande semplici”, questo il titolo dell’editoriale della direttrice de L’unità, alle ore 13:05 di oggi. Commenti: zero.
Zero?
Non è possibile. Forse per uno scienziato queste risposte imprevedibili ad un test sono la normalità, per me è scioccante.
Commenti: zero. È stato appena pubblicato. Non va bene per il mio test.
Prendo l’articolo precedente: “Vecchi amici”. Redatto il 25 Luglio alle 22, 31.
Commenti presenti: duecentonovantatre.
Ancora, non mi interesso al contenuto dell’articolo e neppure alle argomentazioni dei commenti, rilevo solo il numero di risposte a questi: Ancora zero.

Una volta, un giornalista del Fatto rispose a un commento. Sobbalzai e ne fui felice.
Per evitare fraintendimenti: non rispose a me. Io non lascio mai commenti, sono solo uno spione.
Rispose, così, in generale. Non ricordo, l’articolo originale. Non ricordo la domanda del commento, ne lo pseudonimo del commentatore, ne se avesse numeri nel nome.
Ricordo solo che quella risposta, per un attimo, mi tolse quell’immagine di balcone assolato dalla mente. Mi fece bene.