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  • Domenica 27 giugno 2010

Il buon esempio

Deriso da sempre come ingenuo dagli scaltri, l'approccio al calcio degli USA è il migliore visto finora: sconfitto ma nobile

United States head coach Bob Bradley, left, and Ghana head coach Milovan Rajevac shake hands after the World Cup round of 16 soccer match between the United States and Ghana at Royal Bafokeng Stadium in Rustenburg, South Africa, on Saturday, June 26, 2010. Ghana won 2-1. (AP Photo/Themba Hadebe)
United States head coach Bob Bradley, left, and Ghana head coach Milovan Rajevac shake hands after the World Cup round of 16 soccer match between the United States and Ghana at Royal Bafokeng Stadium in Rustenburg, South Africa, on Saturday, June 26, 2010. Ghana won 2-1. (AP Photo/Themba Hadebe)

Già al secondo ottavo di finale dei mondiali si è arrivati ai tempi supplementari. Squadre sfinite, partita molto combattuta, un posto solo tra le otto migliori del mondo, grande distanza culturale e geografica tra i giocatori. Non esiste partita con questi ingredienti che non si concluda almeno con una forte tensione, ma più frequentemente con liti, provocazioni, aggressività e perdita dei nervi da parte di qualcuno in campo.

Ieri, niente.

I giocatori sono usciti dal campo salutandosi e scambiandosi le maglie, il tempo si è esaurito con gli americani che cercavano di pareggiare giocando a pallone. I giocatori del Ghana, come si fa, si impegnavano a lasciar passare il tempo anche con i soliti escamotages – senza esagerare, va detto – e nessuno degli avversari si indispettiva, protestava con l’arbitro o andava a trascinare i giocatori presunti infortunati.

Ma per tutta la partita, 120 minuti, non si è mai vista da parte dei giocatori americani una tensione cattiva, un’aggressività a gioco fermo. Nell’ultimo tempo supplementare in qualche occasione i giocatori africani hanno simulato un fallo ricevuto, e gli statunitensi non hanno protestato, lasciando all’arbitro la competenza sulla questione.

Nelle partite scorse qualcuno aveva notato come almeno in un paio di occasioni la squadra statunitense avesse subito delle decisioni arbitrali ingiuste – probabilmente due gol annullati che invece erano validi, un gol irregolare segnato dagli avversari – senza di fatto protestare: un gesto di stizza, al massimo. Il loro sembra un altro modo di giocare a calcio: o meglio, giocano al calcio e basta. Non si buttano, non protestano, rispettano le decisioni dell’arbitro e non le contestano, e quando è finita la partita è finita la partita.

Ecco come sono state commentate su New Republic le decisioni arbitrali che potevano costare agli USA la qualificazione.

Siamo stati derubati? Solitamente la risposta a una domanda retorica così formulata è No. E questo caso non fa eccezione. La nazionale non è stata derubata e non siamo vittime di alcun complotto anti-americano. […] Mettiamo pure che l’arbitro abbia sbagliato: e allora? L’arbitro è l’arbitro, la sua parola è legge e se ha torto non importa. Il gioco funziona così. Più in generale, il punto è che i giocatori non possono controllare le decisioni dell’arbitro. Non sono responsabili per le azioni dell’arbitro: sono responsabili delle loro.

Quindi, se gli Stati Uniti vogliono trovare dei capri espiatori piuttosto che guardare ai propri errori – errori che li avevano portati sotto di due gol – facciano pure. Sono le nostre marcature inesistenti che hanno lasciato a Birsa il tempo e lo spazio per sistemarsi il pallone e tirare in porta: il gol è stato la giusta ricompensa per la sua bella azione e la giusta punizione per la nostra superficialità.

(Era divertente, la settimana scorsa, anche l’articolo con cui il New York Times cercava di spiegare ai lettori americani l’incomprensibile spettacolo di tutto questo buttarsi a terra per niente, fingere di essere stati colpiti, lagnarsi di un nonnulla da parte di maschioni smargiassi e muscolosi).

L’analisi sull’atteggiamento americano è una generalizzazione, certo, e ci sono e ci saranno eccezioni. Ma è impossibile non trarne un banale quanto plausibile ragionamento sullo spirito di un paese, in questi giorni in cui in Italia si discute assai se la mediocre prestazione della nazionale rifletta le mediocri condizioni della nazione (sì, hanno detto in molti subito; no, hanno risposto Stefano Cappellini sul Riformista ieri e Ilvo Diamanti su Repubblica oggi). Il vittimismo, la finzione e la protesta per il torto subito che fanno parte integrante del gioco del calcio come lo vediamo noi – e che arriviamo a incentivare e apprezzare – non sono nel DNA degli americani. Quello è un paese, lo sappiamo, che nel bene e nel male si è sempre considerato superiore agli altri e che è abituato a reagire alle avversità e alle sconfitte sul campo e battendosi.

Dopo l’11 settembre la parola d’ordine fu “non dargliela vinta”. L’America non indugiò sulla terribile disgrazia che le era capitata, né accusò il resto del mondo di non averla aiutata e difesa, né chiese l’intervento di qualcun altro. Sarebbe stato meglio che lo facesse – avesse avuto qualcuno in grado di aiutarla – ma che sia giusto o sbagliato, un paese è fatto come è fatto. E lo sappiamo noi che ci siamo incartati in questo autoindulgente ritratto sfigato e vittimista di noi stessi.

Quello che è interessante è che nel caso del calcio – in cui c’è a rischio molto meno che non la sopravvivenza degli stati e delle civiltà e le vite umane – il restare fedeli all’idea di responsabilità del proprio destino e alla possibilità di cambiarlo da soli, è un esempio prezioso e benvenuto, per quanto deriso dai cinici entusiasti di vincere giocando male grazie a un rigore inesistente e malvisto da chi vede riflessa nella dignità altrui l’indegnità propria. È anche un esempio perdente, come sono spesso stati e sono tuttora gli esempi migliori: però perde ogni volta un po’ meno – ieri sera ha contagiato i più celebri e pagati giocatori ghanesi – come è successo a volte agli esempi migliori.