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Nino non aver paura

Secondo diverse ricerche scientifiche la chiave per tirare un rigore perfetto non è nei piedi, bensì nella testa

È importante anche esultare dopo il gol: aiuta i compagni a segnare e gli avversari a sbagliare

La prassi vorrebbe che un articolo come questo – che è un articolo sui calci di rigore – iniziasse con una lunga filippica a metà tra il filosofico e lo storico: un po’ sui rigori come metafora della vita (esiste una metafora più abusata di quella per cui “la vita è come una partita”?), soggetta alle bizzarrie del caso e disseminata di episodi determinanti capaci di condizionare tutto quello che verrà dopo, un po’ come promemoria di quanto la cosiddetta lotteria-dei-rigori (esiste una formula più abusata di lotteria-dei-rigori?) abbia segnato la storia della nazionale italiana nelle competizioni europee e mondiali: sconfitti ai rigori nel 1994, sconfitti ai rigori nel 1998, in finale grazie ai rigori nel 2000, campioni del mondo grazie ai rigori nel 2006, sconfitti ai rigori nel 2008. Insomma, diamo per acquisita e condivisa la rituale premessa e sintetizziamo: i rigori contano. Molto.

Veniamo a noi. Il Journal of Sport Sciences ha pubblicato una ricerca di un’università norvegese, raccontata dal New York Times, che tenta di spiegare una volta per tutte qual è il fattore che incide di più nel determinare il successo di chi si appresta a tirare un rigore. Immaginate di dover calciare un rigore decisivo, che può determinare da solo una vittoria o una sconfitta: come quello di Grosso ai mondiali di Germania o quello di Baggio ai mondiali americani. I calciatori che segnando il rigore possono determinare la vittoria della propria squadra fanno gol il 92 per cento delle volte. I calciatori che sbagliando il rigore possono determinare la sconfitta della propria squadra, invece, fanno gol solo il 60 per cento delle volte. Questo dato ci dice, in breve, della conclusione a cui sono arrivati gli studiosi norvegesi dopo aver raccolto una grande quantità di dati e aver condotto diversi esperimenti: conta la testa. Quasi esclusivamente la testa.

“Questa per me è la scoperta chiave di tutti i nostri studi”, ha detto Geir Jordet, professore della Scuola norvegese delle Scienze sportive di Oslo, che ha analizzato con attenzione i calci di rigore. Jordet ha scoperto anche che la percentuale dei rigori messi a segno si riduce per ogni rigorista che si succede sul dischetto: il primo rigorista segna l’86,6 per cento delle volte, il secondo rigorista segna l’81,7 per cento delle volte, il terzo rigorista segna il 79,3 per cento delle volte e così via. “Questo dimostra chiaramente il potere della componente psicologica”.

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Altre ricerche hanno spiegato altri aspetti interessanti dei calci di rigore. Una ricerca di alcuni scienziati olandesi pubblicata sulla rivista Human Movement Science ha scoperto il peso che ha la concentrazione visiva del calciatore: se passi troppo tempo a guardare il portiere, è più facile che sbagli.

“Se mentre calci pensi ‘non devo tirare sul portiere’, beh, è proprio quello che farai”, ha detto Olaf Binsch, uno degli studiosi. “Se fossi un allenatore, nel dare istruzioni ai miei giocatori sui calci di rigore userei solo parole ‘positive’: non direi loro di non fare qualcosa e soprattutto non direi mai la parola portiere“.

C’è un caso piuttosto recente di portiere capace di attirare l’attenzione dei rigoristi al punto di costringerli all’errore: è quello del polacco Jerzy Dudek, portiere del Liverpool durante la finale di Champions League del 2005, persa dal Milan proprio ai rigori. Dudek iniziò a muoversi tra i pali in modo irregolare, prima spostandosi completamente da una parte, poi dall’altra, poi ondeggiando come se stesse cercando di sciogliere i muscoli. I calciatori non potevano fare a meno di guardarlo, e sbagliavano.

Una tecnica non molto diversa da quella utilizzata nel 1984 dal portiere Grobbelaar, anche lui del Liverpool, durante la finale di Champions League persa dalla Roma ai rigori.

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