Perché le videochiamate avranno mai davvero successo, secondo David Foster Wallace

A molti di quelli che hanno letto Infinite Jest, il capolavoro dello scrittore americano David Foster Wallace, la parola “videochiamata” fa subito venire in mente un brano del romanzo, in cui Wallace descrive i motivi del fallimento delle videochiamate nel mondo fittizio del libro, ambientato in un futuro vicino.

La risposta, per farla tre volte breve, è: (1) stress emozionale, (2) vanità fisica, (3) una certa strana forma di logica auto-obliterante nella microeconomia dell’high-tech di consumo.

Lo stress:

La buona vecchia conversazione telefonica tradizionale solo audio consentiva di presumere che la persona dall’altro lato stesse prestando un’attenzione completa alla telefonata, e al tempo stesso faceva sì che tu potessi distrarti quando ti pareva. […] Una conversazione tradizionale solo vocale permetteva di immergersi in una specie di fuga semiattenta, ipnotica quanto il viaggiare in autostrada; mentre si parlava si poteva guardarsi intorno, scarabocchiare, darsi una sistematina, levarsi i pezzettini di pelle morta dal bordo delle unghie, comporre haiku sulla rubrica telefonica, mescolare qualcosa sui fornelli; si poteva perfino condurre una conversazione parallela interamente separata con un’altra persona nella stanza usando il linguaggio gestuale ed espressioni facciali esagerate, e tutto questo dando sempre l’impressione di essere attentissimo a ciò che diceva la voce dall’altra parte del telefono. Eppure anche mentre si divideva l’attenzione fra la telefonata e ogni altro genere di piccola cosa, in qualche modo non veniva mai in mente che l’attenzione della persone con cui si era al telefono potesse essere scarsa come la nostra.

Durante una telefonata tradizionale, per esempio, mentre si stava eseguendo, diciamo, un attento esame tattile del mento in cerca di brufoli non si era in alcun modo oppressi dal pensiero che l’altra persona al telefono potesse magari a sua volta dedicare una buona percentuale della sua attenzione all’esame tattile del suo mento. […] Questa illusione bilaterale di attenzione unilaterale era gratificante in modo quasi infantile, su un piano emozionale: si giungeva a credere di poter ricevere la completa attenzione di qualcuno senza doverla ricambiare. Con l’oggettività del senno di poi questa illusione appare arazionale, quasi letteralmente fantastica: sarebbe come pensare di poter mentire e al tempo stesso aver fiducia negli altri.

La videotelefonia rese questa fantasia insostenibile. Chi chiamava doveva mettere insieme la stessa calorosa e intensa espressione d’ascolto che usava negli incontri di persona. Coloro che chiamavano e, per inconscia abitudine, soccombevano a un distratto scarabocchiare e all’aggiustarsi le pieghe dei pantaloni finivano con l’apparire scortesi, assorti o puerilmente infatuati di sé. Chi, ancora più inconsciamente, si strizzava i foruncoli o si esplorava le narici trovava espressioni inorridite sui volti di chi lo vedeva. Il tutto si risolveva in uno stress videofonico.

La vanità:

E lo stress videofonico era anche peggiore se si era in qualunque misura vanitosi. Cioè, se ci si preoccupava anche solo un po’ di come si appariva. Cioè agli altri. Quindi, non scherziamo, tutti. Alle buone vecchie telefonate auricolari si poteva rispondere senza trucco, toupet, protesi chirurgiche, ecc. Perfino senza vestiti, se proprio ci andava. Ma per chi teneva all’immagine non poteva più esserci nelle chiamate videofoniche quell’informalità tipo rispondi-come-sei, e gli utenti cominciarono a considerare le videotelefonate più o meno come visite a casa, con la conseguente necessità di mettersi qualcosa addosso […], e fare un controllo dei capelli nello specchio dell’ingresso prima di rispondere.

Il brano — essendo ambientato in un ipotetico futuro — continua poi con la descrizione grottesca di ciò che successe dopo l’avvento delle videotelefonate, ovvero la diffusione di Maschere ad Alta Definizione da indossare durante le chiamate, immagini collage del meglio dei volti dei chiamanti.