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  • Martedì 1 giugno 2010

L’Exodus al contrario

Nel 1947 una nave con a bordo 4500 ebrei sopravvisuti ai lager tedeschi fu attaccata dalla Marina Britannica

Nel luglio del 1947, una nave con a bordo 4500 ebrei sopravvisuti ai lager tedeschi fu speronata al largo di Haifa da alcune cacciatorpediniere britanniche che ne volevano impedire l’approdo nel nascente Stato di Israele. Dopo alcune ore di scontri in cui tre persone furono uccise, la nave fu presa in ostaggio e i suoi passeggeri furono rimandati in Germania. L’episodio scatenò la reazione indignata della stampa internazionale e contribuì a rafforzare l’appoggio per la costituzione dello Stato d’Israele, che avvenne un anno dopo. Il New York Times oggi dedica un articolo alla storia dell’Exodus (raccontata nel celebre film di Otto Preminger con Paul Newman), che fu ribattezzata “The Ship that launched a Nation” (“La nave che lanciò una nazione” ndr) e confronta l’episodio con quello che è successo domenica alla Freedom Flotilla attaccata dall’esercito israeliano mentre cercava di portare aiuti umanitari nella striscia di Gaza.

Lunedì, gli attivisti feriti durante gli scontri sono stati portati a Haifa per essere curati. Sessantatre anni fa erano le foto dei feriti isrealiani dell’Exodus a fare il giro del mondo. Anche loro furono scortati a Haifa.

Un altro parallelo tra i due episodi, scrive il New York Times, è quello che riguarda le cause che avrebbero spinto i soldati a usare la violenza contro le persone a bordo della nave. L’esercito israeliano insiste a dire che i soldati hanno sparato solo per reagire alla violenza degli attivisti a bordo, ma fino a questo momento nessuna arma da fuoco è stata trovata sulla nave, eccetto due pistole appartenenti ai soldati israeliani. Anche nel 1947 l’esercito britannico aveva cercato invano di giustificarsi nello stesso modo.

Gad Lerner, sulla Repubblica di oggi, parla di “Exodus rovesciato” e definisce l’attacco un disastro geopolitico e una delle pagine più disonorevoli del governo israeliano:

Dalla spiaggia di Tel Aviv guardiamo il Mediterraneo incendiato dall’inconfondibile luce del Levante e proviamo un senso di vergogna, come di profanazione per quello che vi è accaduto nell’oscurità. Non si sono certo fatti onore i marinai d’Israele, protagonisti di un arrembaggio dilettantesco e cruento. Una delle pagine più oscure nella storia di Tzahal. Tanto più che spezza inavvertitamente l’equilibrio strategico mediorientale in cui la Turchia rivestiva una preziosa funzione di stabilità, e coalizza una vasta ostilità internazionale contro lo Stato ebraico.

Il blocco militare del Mar di Levante evoca troppi simboli dolorosi nel paese che coltiva la memoria dei sopravvissuti alla Shoah quasi alla stregua di una religione civile. Impossibile sfuggire alla suggestione che in una tiepida notte d’inizio estate le acque del Mediterraneo abbiano vissuto un Exodus all’incontrario. Non certo perché i militanti e i giornalisti a bordo della flotta che intendeva violare l’embargo di Gaza siano paragonabili ai 4500 sopravvissuti dei lager che le cacciatorpediniere britanniche speronarono nel 1947 al largo di Haifa, impedendo loro di approdare nel nuovo focolare nazionale ebraico. Ma perché quell’arrembaggio sconsiderato in acque internazionali, senza che Israele fosse minacciato nella sua sicurezza, discredita uno dei suoi valori fondativi: la superiorità morale preservata da una democrazia anche nelle circostanze drammatiche della guerra.