Intercettazioni, la Stampa fa i distinguo

Due articoli in prima pagina contestano la legge ma anche i suoi nemici

La Stampa di oggi prende posizione nel dibattito in corso sulla legge sulle intercettazioni, con un commento del suo direttore Mario Calabresi e uno del suo editorialista di punta, Luca Ricolfi. E la loro posizione è interessante, oltre che in qualche modo inedita nel dibattito di questi giorni: tra chi difende a spada tratta la legge in questione e chi difende a spada tratta la libertà dei giornalisti, qualcuno cerca di mettersi in mezzo e redistribuire torti e ragioni.

Su una cosa sono chiari fin da subito, Calabresi e Ricolfi: la legge in discussione in parlamento è dannosa e inadeguata rispetto agli obiettivi che i suoi estensori dicono di porsi. Scrive Calabresi:

Il disegno di legge sulle intercettazioni è così palesemente sproporzionato e ha un sapore talmente vendicativo da risultare inaccettabile e da soffocare ogni possibilità di riflessione. Nei mesi in cui riemergono prepotentemente la corruzione e gli intrecci tra la politica e gli affari e in cui la nostra classe dirigente mostra il suo volto più arrogante e spregiudicato, la nuova legge suona come l’estremo rimedio per coprire l’illegalità e garantire impunità. Non si capisce come siano collegate la necessità di offrire maggiore privacy e vere garanzie agli indagati con la limitazione dei tempi delle intercettazioni o l’obbligo che per autorizzarle ci voglia un collegio formato da tre magistrati. Rendere più faticosa, farraginosa e intempestiva la possibilità di intercettare va nella direzione di indagini più serene e rispettose o finisce per essere un favore a chi delinque? Prima ancora del diritto di informazione mi sta a cuore la possibilità che la magistratura possa continuare ad indagare a fondo, sia messa nelle condizioni di operare senza inciampi. Perché se anche fossimo liberi di pubblicare ogni atto e ogni intercettazione ma ai pubblici ministeri fosse impedito di lavorare, allora mi chiedo cosa ci resterebbe da raccontare.

Gli fa eco Luca Ricolfi, ribadendo il concetto: la prima ragione per cui la legge non va bene non è che limita il diritto dei giornalisti di pubblicare atti e intercettazioni, bensì il fatto che limita la possibilità per la magistratura di utilizzarle nelle indagini.

Se quella legge passerà, le intercettazioni, che a parole quasi tutti riconoscono come un insostituibile strumento di indagine, non verranno semplicemente ridimensionate un po’, come è ragionevole (ci sono stati abusi da parte dei magistrati) e come in parte sta già avvenendo spontaneamente, ma subiranno un vero e proprio tracollo, in quantità e in efficacia. Il limite dei 75 giorni, le condizioni restrittive per richiederle, l’iter necessario per ottenere le autorizzazioni e le proroghe, sono congegnati in modo tale da rendere la vita impossibile alle procure della Repubblica. Questa, e non la libertà dell’informazione, è la vera posta in gioco.

E veniamo alla stampa. Anche nel criticare una legge pericolosa e sbagliata, i giornalisti non possono fare a meno di fare autocritica, dicono Calabresi e Ricolfi. Liste piene di nomi pubblicate senza distinzioni di ruoli e responsabilità, dialoghi decontestualizzati, conversazioni private senza alcuna rilevanza penale. Calabresi racconta della linea che ha deciso di adottare sul giornale che dirige.

Da mesi ne discutiamo in questa redazione, cercando di darci dei limiti quando la sera, nella fretta della chiusura, ci troviamo di fronte a centinaia di pagine di verbali e intercettazioni. Pensiamo che si debba pubblicare solo ciò che è significativo per far comprendere un’inchiesta, illuminante per i lettori. Resto convinto che in uno Stato di diritto e in una democrazia sana spetti alla magistratura la valutazione degli indizi e delle prove e che debbano essere i tribunali e non i giornali a emettere le sentenze. L’idea di una giustizia sommaria somministrata sull’onda delle emozioni e dell’indignazione è qualcosa che mi ha sempre fatto paura e che in passato ha fatto danni che non si dimenticano. Sarebbe il tempo di aprire una discussione vera e approfondita sul rispetto della privacy, dei diritti degli inquisiti e sulla tutela che andrebbe garantita a chi finisce suo malgrado in un’inchiesta senza averne colpa.

Ricolfi aggiunge:

I giornalisti parlano come se oggi vigesse un regime di libertà di informazione, in cui i cittadini – grazie all’onestà intellettuale e al coraggio dei giornalisti – sono correttamente informati, in cui un’opinione pubblica «avvertita e consapevole» è in grado di «esercitare il controllo democratico sul comportamento di eletti e amministratori», come spesso si sente ripetere. Ma non è così, i cittadini italiani vivono in un sistema dei media inquinato dalla faziosità e dalla leggerezza, spesso poco o mal documentato, comunque lontanissimo dagli standard degli altri Paesi democratici. E a proposito di intercettazioni: non è strano che negli altri Paesi se ne pubblichino così poche, nonostante il diritto dell’opinione pubblica di sapere sia assai più tutelato che in Italia? Non sarà che la democrazia è compromessa innanzitutto dal fatto che, sia pure con le dovute eccezioni (Milena Gabanelli, per esempio), i nostri giornalisti indagano poco e si schierano troppo? Anche su questo la penso come Giulio Anselmi, che nella medesima intervista mestamente riconosceva: «Il giornalismo italiano non è mai stato uno straordinario cane da guardia della democrazia».

A causa di questo – e di un percepibile “eccesso di autoreferenzialità” – il mondo dell’informazione starebbe completamente sbagliando mira, conducendo una battaglia in difesa di qualcosa che non esiste (un’informazione completa, corretta e imparziale) senza accorgersi che i principali bersagli della legge sono i magistrati, non i giornalisti.

Per vincere la battaglia sulla libertà dell’informazione, rischiamo di perdere la guerra più importante, quella per una giustizia messa nelle condizioni di perseguire il crimine.