Nel mare ci sono i coccodrilli

La storia vera del viaggio verso l'Europa di un ragazzino afghano braccato dai talebani

di Elena Favilli

Quando la buca scavata da tua madre vicino alle patate sta diventando troppo piccola per nasconderti dai talebani, vuol dire che continuare a vivere in Afghanistan sta diventando troppo pericoloso. E allora anche se hai solo dieci anni o giù di lì, e passi il tempo a giocare nei campi con i tuoi amici perché i talebani hanno chiuso la tua scuola e ucciso davanti a te il tuo maestro e il tuo preside, può capitare che tua madre ti dica che dovete fare un viaggio. “Nel mare ci sono i coccodrilli” è la storia del tuo viaggio, la storia vera di Enaiatollah Akbari.

Fabio Geda, l’autore di questo libro, dice che quando ha conosciuto per la prima volta Enaiatollah Akbari al Centro Interculturale di Torino e l’ha sentito raccontare il suo lunghissimo viaggio – dieci anni – dall’Afghanistan all’Italia, ha capito che gli sarebbe servito molto tempo prima di riuscire a scrivere quella storia con altrettanta leggerezza e ironia: “Ho impiegato tre anni per sentirmi adatto al compito”. Ora che il libro è finalmente uscito, Enaiatollah dice che d’ora in poi racconterà la sua storia come l’ha raccontata Fabio.

Afghanistan

La zona in cui vivevamo, il distretto di Ghazni, è abitato solo da hazara, cioè afghani come me, con gli occhi a mandorla e il naso schiacciato anzi, non proprio schiacciato, un po’ più piatto degli altri, più piatto del tuo, Fabio, ad esempio: i tratti delle popolazioni mongole. C’è chi dice che siamo i discendenti dell’armata di Gengis Khan. C’è chi dice che i padri dei nostri padri erano i koshani, gli antichi abitanti di quelle terre, i leggendari costruttori dei Buddha di Bamiyan. E c’è chi dice che siamo schiavi, e come schiavi ci tratta. Uscire dal distretto o dalla provincia di Ghazni era estremamente pericoloso per noi (e dico era solo perché oggi non so com’è, ma non credo sia cambiato molto), perché tra talebani e pashtun, che non sono la stessa cosa, no, ma a noi hanno sempre fatto del male uguale, dovevi stare attento a chi incontravi. Per questo, credo, siamo partiti di notte, noi tre: io, mia madre e l’uomo – l’uomo che chiamerò semplicemente uomo – cui mamma aveva chiesto di accompagnarci. Siamo partiti a piedi e per tre notti, con il favore del buio e la luce delle stelle – che è una luce che, in quei posti senza corrente elettrica, è davvero potente – abbiamo camminato verso Kandahar. Io indossavo il mio solito pirhan grigio, pantaloni larghi e giacca lunga alle ginocchia della stessa stoffa. Mamma camminava con lo chador, ma si era portata nel sacchetto un burqa da indossare quando incontravamo delle persone, un modo buono per non far vedere che era una hazara e per nascondere me.

Pakistan

Quando siamo andati a parlare con il trafficante, in una sala buia imbottita di fumo di taryak con un sacco di uomini che bevevano chay e scaldavano l’oppio sui fornelletti, quello ci ha chiesto subito dei soldi. Ma noi tutti i soldi che lui voleva non li avevamo. Abbiamo svuotato le tasche dei pirhan rivoltando la stoffa, abbiamo raccolto tutte le monete e le banconote accartocciate che avevamo messo da parte e gliele abbiamo ammucchiate davanti, sul tavolo: una collinetta di denaro.
È tutto quello che possiamo darti, ho detto. Nemmeno mezza rupia in più.
Lui ci ha squadrato a lungo, come se prendesse le misure per farci un vestito. Il vostro mucchietto di soldi non basta nemmeno a pagare il biglietto dall’autobus fino al confine, ha detto.
Sufi e io ci siamo guardati.
Ma una soluzione ci sarebbe, ha aggiunto, finendo di tagliare una mela e portandone un pezzo alla bocca con il coltello. Io vi porto in Iran, va bene, però in Iran voi dovrete lavorare in un posto che so io. Lavorare? È magnifico, ho detto. Non credevo alle mie orecchie: non solo ci portava in Iran, ma ci trovava anche da lavorare.
Per tre o quattro mesi, dipende da quanto mi sarà costato il vostro viaggio, gli stipendi li prenderò io, ha detto il trafficante. Dopo potrete ritenervi liberi e fare quello che vi pare. Restare lì, se vi siete trovati bene. O andarvene, se vi siete trovati male.
Sufi ci mancava ancora che chiudesse gli occhi e si inginocchiasse in preghiera, tanto era tranquillo e silenzioso. Io ero stordito dal fumo e dal buio, e tentavo di pensare a quale potesse essere il trucco, perché i trafficanti sono famosi per i loro trucchi, ma il fatto, ecco, il fatto era che non avevamo altri soldi, e lui doveva pagare i beluci e gli iraniani che ci avrebbero permesso di superare il confine, ed era quella la spesa maggiore, perciò non aveva tutti i torti: non eravamo figli suoi, non voleva perdere denaro con il nostro viaggio. E poi mi ero presentato come amico di kaka Rahim, non come uno qualunque, e questo mi rasserenava più di ogni altra cosa.
Sufi e io abbiamo detto che andava bene.
Domani mattina alle otto fatevi trovare qui, ha detto lui.
Khoda negahdar.

Iran

Tutti clandestini. I muratori, i carpentieri, gli impiantisti di quella azienda erano tutti senza documenti. Vivevano lì, negli appartamenti in costruzione di quel grande complesso residenziale. E questo, sia chiaro, non perché abitandoci dentro lo si costruisse meglio, e nemmeno per lavorare di più – anche se in qualche modo entrambe la cose sono vere: se costruisci una casa che non è tua, ma in quel momento è come se lo fosse, un po’ ti ci affezioni e finisci che la curi di più, e se non devi perdere tempo a tornare a casa la sera e a recarti al lavoro la mattina, puoi lavorare appena sveglio e smettere poco prima di andare a dormire o a cena, se hai ancora la forza di mangiare – non tanto per questi motivi, dicevo, ma perché era il posto più sicuro.
Infatti nessuno usciva mai dal cantiere. Il cantiere non era solo una casa. Il cantiere era un mondo. Il cantiere era il sistema solare.
I primi mesi né io né Sufi abbiamo mai messo piede fuori dal cantiere. Avevamo paura della polizia iraniana. Avevamo paura di finire a Telisia o a Sang Safid, che se non sapete cosa sono, credetemi, è solo perché non siete stati dei profughi afghani in Iran, perché tutti i profughi afghani in Iran sanno cosa sono Telisia e Sang Safid. Due centri di permanenza temporanea. Leggendari. Due campi di concentramento, per quello che ho potuto leggere, poi, sui campi di concentramento: non so se mi spiego. Luoghi senza speranza.
Bastava pronunciare il loro nome, in Afghanistan, per risucchiare l’aria di una stanza come nei sacchetti sotto vuoto per gli alimenti. Il sole si oscurava e le foglie cadevano. Si raccontava che lì i poliziotti costringessero le persone a salire sulle colline – erano posti enormi – portando un copertone di un camion con sé, sulle spalle, e che poi li obbligassero a infilarsi nel copertone e li facessero rotolare giù tra le rocce. Quando ero in Afghanistan ho incontrato per strada due ragazzi che erano diventati matti. Parlavano da soli, urlavano, si pisciavano addosso. E qualcuno, ricordo, mi aveva detto che erano stati a Telisia, oppure a Sang Safid.

Turchia

Al mattino presto, nel silenzio e nella luce bianca dell’alba, abbiamo raggiunto un piccolo villaggio. C’era una casetta, noi ci siamo entrati come fosse nostra, ma non era nostra, era di una famiglia. Una specie di punto di raccolta per i clandestini che volevano passare le montagne. Un gruppetto era già lì e poco dopo ne sono arrivati ancora: afghani. Alla fine eravamo in trenta. Eravamo spaventati. Ci chiedevamo come fosse possibile attraversare le montagne in così tanti senza farci vedere. Lo abbiamo chiesto, ma senza ricevere risposta, e quando abbiamo insistito ci hanno fatto capire che era meglio non continuare, e così, sempre aspettando, siamo rimasti in quel ricovero per due giorni.
Poi, la sera del secondo giorno, al tramonto, ci hanno detto di prepararci. Siamo usciti sotto un cielo stellato e una luna grande, che non c’era bisogno di luci o fiaccole o occhi da gufo. Si vedeva benissimo. Abbiamo camminato una mezz’ora tra i campi e certi piccoli sentieri invisibili a chi non li conoscesse. Al termine di una prima salita, da dietro una grande roccia è sbucato un gruppo di persone. Ci siamo spaventati, e qualcuno ha urlato che erano soldati. Invece erano trenta clandestini. Non potevamo credere ai nostri occhi. Ora eravamo sessanta, in sessanta in fila per i sentieri delle montagne. Ma non era finita. Mezz’ora dopo, un altro gruppo. Se ne stavano acquattati a terra in attesa del nostro arrivo. Quando ci siamo contati, quando finalmente abbiamo potuto, durante una breve sosta a notte fonda, eravamo settantasette.
[…]
Il diciottesimo giorno ho visto delle persone sedute. Le ho viste in lontananza e subito non ho capito perché si fossero fermate. Il vento era un rasoio e briciole di neve mi otturavano il naso, e quando cercavi di toglierle con le dita non c’erano più. Dietro una curva a gomito, d’un tratto, me le sono trovate di fronte, le persone sedute. Erano sedute per sempre. Erano congelate. Erano morte. Erano lì da chissà quanto tempo. Tutti gli altri sono sfilati di fianco, in silenzio. Io, a uno, ho rubato le scarpe, perché le mie erano distrutte e le dita dei piedi erano diventate viola e non sentivo più nulla, nemmeno se le battevo con una pietra. Gli ho tolto le scarpe e me le sono provate. Mi andavano bene. Erano molto meglio delle mie. Ho fatto un cenno con la mano per ringraziarlo. Ogni tanto lo sogno.

Grecia

Ci avevano detto che remando veloci saremmo sbarcati sulle coste della Grecia in due o tre ore, ma questo senza considerare l’acqua che entrava nel gommone. Quando il mare si è arrabbiato e ha cominciato a scrosciarci addosso come se piovesse ho preso una bottiglia d’acqua, l’ho strappata con i denti a metà per ricavarne una ciotola e ho detto a Hussein Alì: Lascia stare la toppa. Ributta l’acqua in mare.
E come? Con questa, ho detto mostrando la mezza bottiglia. In quell’istante un’onda me l’ha strappata di mano, quasi avesse sentito e non fosse d’accordo. Ne ho fatta una seconda. Ho preso la mano di Hussein Alì e l’ho stretta sulla ciotola. Con questa, ho detto di nuovo.
Remavamo. Ma allora perché ci sembrava di essere fermi? […] A tratti la corrente o il vento o le onde ci rigettavano verso la costa della Turchia – o così credevamo: non eravamo proprio sicuri di sapere da che parte stava la Turchia e da quale la Grecia – e il piccolo Hussein Alì ha cominciato a dire, senza smettere di scavare nell’acqua che riempiva il gommone: Io lo so perché non riusciamo ad andare verso la Grecia. Non riusciamo ad andare verso la Grecia perché di là il mare è in salita. E lo diceva piagnucolando.

Italia

Non dovevo alzarmi, ancora. Non dovevo muovermi. Stare fermo, non respirare, attendere. Essere paziente. La pazienza salva la vita.
Uscito dal porto – erano trascorsi quindici minuti, direi, in ogni caso meno di mezz’ora – il camion ha rallentato ed è entrato in un cortile, un cortile pieno zeppo di altri camion, motrici, rimorchi. Gli amici, in Grecia, mi avevano suggerito di non scendere subito, di aspettare che il camion penetrasse a fondo nel Paese (qualunque Paese fosse), che si allontanasse dalle frontiere e poi di approfittare di una sosta dell’autista, magari a un autogrill, per sgattaiolare via. Sono rimasto rannicchiato, tranquillo, in attesa che il camion ripartisse. Ripassavo le azioni tra me e me, per essere svelto e preciso: saltare a terra, atterrare sulla punta dei piedi, rotolare, se era necessario, per attutire il colpo, cercare una via di fuga, correre, non voltarmi, correre. Ma.
Invece di ripartire, a un certo punto, ho sentito come un terremoto. Mi sono sporto. Una gru enorme aveva agganciato il rimorchio in cui ero. Mi sono spaventato tantissimo. Ho pensato: Cosa capita, adesso? Se finivo in un tritametalli? Allora mi sono detto che dovevo scendere, subito, e mi sono buttato giù.
Tre uomini stavano lavorando attorno alla gru. Sono atterrato come un sacco di patate (nonostante le prove mentali di prima), perché le gambe erano di legno e non potevano ammortizzare il salto. Quando sono atterrato ho cacciato un urlo. E sarà per l’urlo, o per il fatto che non si aspettavano di vedere piovere un afghano dal cielo, ma si sono spaventati tantissimo, quei tre uomini; e un cane, anche un cane che era lì di guardia, è fuggito via. Sono caduto sul cemento, goffo, ma ho subito controllato le vie di fuga. Non potevo lasciarmi distrarre dal dolore. Ho visto che una parte del muro di cinta, quello che divideva il cortile dalla strada, era crollato. Sono corso in quella direzione, a quattro zampe, da animaletto; non riuscivo a stare in piedi. Pensavo mi inseguissero, invece uno dei ragazzi in tuta da lavoro s’è messo a urlare: Go, go. E mi ha indicato la statale. Nessuno ha provato a fermarmi.