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  • Giovedì 3 marzo 2011

Contro il crocifisso sul muro

"Il crocifisso di Stato", il nuovo saggio di Sergio Luzzatto sul simbolo cristiano e l'Italia

di Sergio Luzzatto

Senza il crocifisso sul muro, dicono, l’Italia non sarebbe piú la stessa. Se il simbolo cristiano della Passione non avesse piú il diritto (o l’obbligo) di stare appeso alle pareti dei nostri edifici statali, tutti gli italiani verrebbero privati di qualcosa di particolarmente prezioso, perderebbero un ingrediente costitutivo della loro identità. Non lo dicono solo tanti cattolici, che pure – quando vogliono raccogliersi davanti all’arredo sacro che piú direttamente ricorda il sacrificio del Salvatore – possono ben farlo in una chiesa, inginocchiandosi davanti al crocifisso che sta presso l’altare. Lo dicono tanti laici. Quand’anche riconoscano di non credere nella Buona Novella, si affannano a spiegare che sí, che il crocifisso significa qualcosa anche per loro, o comunque che sta bene là dov’è. E poi, aggiungono, quel pezzo di legno e d’avorio non ha mai fatto male a nessuno.

Io penso che gli uni e gli altri abbiano ragione, a dire che senza il crocifisso di Stato l’Italia non sarebbe piú la stessa. Ma proprio per questo vorrei che fosse tolto dal muro: perché l’Italia del futuro non somigliasse all’Italia del presente. Perché gli italiani maturassero idee nuove – meno provinciali, piú chiare, piú generose – su che cosa significano i simboli, soprattutto i simboli che pretendono di essere universali. E perché raggiungessero una visione meno zuccherosa e piú razionale, meno retorica e piú critica, insomma una visione piú seria, dei modi in cui la presenza (e l’invadenza) della Chiesa nella vita collettiva ha condizionato e condiziona la nostra storia. Vorrei che il crocifisso fosse tolto dal muro, perché credo che un’Italia dove le pareti degli edifici statali fossero bianche non sarebbe un’Italia piú povera, e deteriore: sarebbe un’Italia piú ricca, e migliore.
Mentre vado scrivendo queste pagine, i giornali danno periodicamente conto dell’evolversi di un caso giudiziario pendente a Strasburgo dal 2006 per iniziativa di una madre di famiglia padovana che riguarda appunto il crocifisso in Italia, e la possibilità che l’Europa abbia voce in capitolo. La Corte europea dei diritti dell’uomo deve giudicare se l’obbligo di esporre il crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche italiane rappresenti o meno una violazione di diritti fondamentali come sono la libertà di pensiero e di educazione. Ma qualunque possa essere l’esito del contenzioso, io so – tutti noi sappiamo – che i pronunciamenti dei giudici di Strasburgo non basteranno a schiodare neppure un singolo crocifisso dai muri dei nostri edifici statali. Se anche la Corte europea sentenziasse (lo ha già fatto) che la presenza del simbolo cristiano nello spazio pubblico configura una forma di proselitismo religioso, e che in quanto tale è contraria alle regole di una buona convivenza europea, i crocifissi resteranno appesi alle pareti delle scuole, degli ospedali, dei tribunali italiani. Imperterriti, continueranno a vegliare sui grandi mutamenti del piccolo mondo due metri piú in basso: scolaresche di bambini dalla pelle di ogni colore, reparti di ammalati credenti o miscredenti, bande di criminali provenienti da ogni dove…

Il crocifisso sul muro non è soltanto un problema di diritto, una questione di codici o di codicilli. Il crocifisso sul muro è soprattutto un problema di storia. Una storia lontana o anche lontanissima, risalente fino al Medioevo, e una storia vicina o anche vicinissima, dal primo Novecento a oggi. In Italia il crocifisso è là, davanti ai banchi dei bambini nelle scuole elementari, sopra il letto dei pazienti nelle stanze d’ospedale, dietro le sedie dei giudici nelle aule dei tribunali, perché là lo ha preparato a giungere un passato remoto, perché là lo ha imposto un passato prossimo, perché là lo mantiene una specie di presente storico. Cosí, ragionare del crocifisso di Stato equivale a ragionare di storia, ma – piú ancora – di antistoria. Non nel senso corrente di quest’ultimo termine, nell’accezione per cui è antistorico ciò che prescinde dalla realtà della storia, ciò che fa astrazione del passato e della sua intrinseca forza di verità. Piuttosto, nel senso gramsciano per cui è antistoria la storia “sbagliata”. La storia da rifiutare. La storia da raddrizzare.


1. La giornata d’uno scrutatore

Il seggio era designato con il numero 71. Si trovava all’interno dell’ospedale Santa Croce, a Cuneo. Era una sezione elettorale come le altre, tale e quale le decine di migliaia periodicamente allestite dallo Stato italiano per l’esercizio della nostra vita democratica.Una stanza abbastanza grande e abbastanza disadorna. Qualche tavolo, opportunamente disposto per accogliere gli iscritti al voto, registrarne i documenti, distribuire loro le schede elettorali. Qualche sedia, ad uso del presidente di seggio, degli scrutatori, dei rappresentanti di lista. Le cabine di legno, poco piú che paraventi posticci, dove votare lontano da sguardi indiscreti.
Gli scatoloni di legno grezzo o di cartone, dove depositare le schede dopo averle compilate. Quella domenica 27 marzo 1994, difficilmente gli iscritti al voto (in maggioranza, pazienti del Santa Croce) avrebbero potuto notare qualcosa di diverso dall’ordinario. Salvo che, allestito in una struttura ospedaliera, il seggio cuneese non aveva le note di colore che abitualmente provengono – nelle sezioni elettorali organizzate dentro le scuole – dalle cose appese ai muri: carte geografiche dell’Italia o dell’Europa, lavagne ancora sporche di gesso o ripulite alla bell’e meglio, improbabili capolavori di bambini attaccati a pannelli di sughero con le puntine da disegno. Bianchi e neri, di una sobrietà quasi luttuosa, soltanto spiccavano alle pareti i due o tre manifesti previsti dal regolamento: quello con gli articoli di legge, quelli con le liste di candidati alle elezioni politiche della dodicesima legislatura. Il seggio non aveva neppure la particolare nota di colore che proviene, in tante sezioni elettorali della Repubblica italiana, dal marrone e dall’avorio di un crocifisso appeso al muro. Per puro caso (tanto piú dentro un ospedale), il simbolo della Passione mancava dalle pareti del seggio n. 71.

Comunque, nella nudità stessa di quell’ambientazione grigia, dimessa, tutto pareva in regola. E quando, già alle prime ore del mattino, gli elettori-pazienti avevano preso ad affluire verso il seggio, chi in pigiama, chi vestito per la domenica, accompagnati o meno da spicci infermieri e da parenti premurosi, tutto era sembrato svolgersi come nel celebre racconto lungo di Italo Calvino, La giornata d’uno scrutatore, Einaudi 1963.
Trent’anni dopo, era il medesimo spettacolo – insieme squallido e solenne – della democrazia in atto: su una scena spoglia, anonima, tra funzionari volutamente impersonali e con il solo ausilio di qualche strumento di cancelleria, era lo spettacolo di un rito tanto banale quanto speciale, era il proverbiale manifestarsi, nel segreto dell’urna, della volontà popolare.
E come l’Amerigo Ormea protagonista del racconto di Calvino, gli scrutatori del seggio cuneese avrebbero ben potuto trovare tutto ciò, in fondo, «sublime, nell’Italia da sempre ossequiente a ciò che è pompa, fasto, esteriorità, ornamento»; «la lezione d’una morale onesta e austera; e una perpetua silenziosa rivincita sui fascisti, su coloro che la democrazia avevano creduto di poter disprezzare proprio per questo suo squallore esteriore, per questa sua umile contabilità». Ma dietro l’apparente normalità del seggio n. 71 si nascondeva qualcosa di nuovo. A suo modo, qualcosa di grave. Il giorno prima, le operazioni di insediamento della sezione (la «costituzione del seggio») avevano dato luogo a un incidente procedurale. Uno scrutatore, designato a tale funzione (allora obbligatoria) dall’ufficio elettorale del comune di Cuneo, aveva fatto mettere a verbale una dichiarazione che riguardava la presenza o meno del crocifisso alle pareti della stanza. «Constato oggi che nel seggio 71 non è esposto il crocifisso; la qual cosa risulta però del tutto casuale e non motivata da disposizioni dell’autorità competente, che annullino i precedenti decreti in base ai quali è fatto obbligo di esporre il crocifisso nelle sedi delle istituzioni statali».


Lo scrutatore aveva precisato dunque come la sua protesta non fosse circoscritta al singolo caso, non riguardasse la presenza materiale del crocifisso nell’uno o nell’altro seggio dell’ospedale Santa Croce. Si trattava di una questione generale, che andava «chiarita senza equivoci e risolta in modo uniforme per tutto il paese»: la medesima questione per cui – prima ancora di essere designato dal comune di Cuneo – il contestatore aveva pensato bene di rivolgersi per lettera al presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro. Era mai ammissibile che l’esercizio di un diritto fondamentale quale il diritto di voto potesse svolgersi in Italia al cospetto di un simbolo di natura confessionale, di contro alla neutralità religiosa prescritta dalla Costituzione? «Come cittadino rispettoso dei principî costituzionali, sento che è mio dovere non accettare una tale situazione, denunciandone l’incostituzionalità e rifiutando quindi di svolgere la funzione di scrutatore».
Al pari del calviniano Amerigo Ormea, lo scrutatore del seggio n. 71 aveva alle spalle un passato di militante comunista. Insegnava disegno e storia dell’arte all’istituto magistrale di Cuneo, aveva cinquantasette anni, si chiamava Marcello Montagnana. Già rappresentante sindacale della Cgil scuola, negli ultimi tempi si era dedicato, da dilettante, a studidi storia; ma anche si era impegnato in una battaglia, personale e familiare, per la difesa della Costituzione e della laicità dello Stato. Quella singolare giornata d’uno scrutatore – sabato 26 marzo 1994 – veniva da lontano, e sarebbe andata lontano. Nell’immediato, la dichiarazione di Montagnana obbligò il presidente di seggio a sospendere le operazioni di insediamento, a ottenere dal comune la sostituzione del dimissionario, a trasmettere copia del verbale all’autorità giudiziaria. Fu l’inizio di un laborioso iter processuale, che finirà per comprendere cinque gradi di giudizio. Imputato per essersi sottratto «senza giustificato motivo» all’ufficio di scrutatore, Montagnana verrà definitivamente assolto, nel marzo 2000, dalla quarta sezione penale della suprema corte di Cassazione, perché «il fatto non costituisce reato».

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È in libreria per Einaudi Il crocifisso di Stato, di Sergio Luzzatto.
Luzzatto insegna Storia moderna all’università di Torino. Per Einaudi ha pubblicato
L’autunno della Rivoluzione (1994),Il corpo del duce (1998), Il Terrore ricordato (2000), La crisi dell’antifascismo (2004), Padre Pio (2007), Bonbon Robespierre (2009). Ha inoltre curato, con Victoria de Grazia, i due volumi del Dizionario del fascismo (2002-2003), e sta curando con Gabriele Pedullà L’Atlante della letteratura italiana (2010).