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Contro il crocifisso sul muro

"Il crocifisso di Stato", il nuovo saggio di Sergio Luzzatto sul simbolo cristiano e l'Italia

«Penso che gli uni e gli altri abbiano ragione, a dire che senza il crocifisso di Stato l’Italia non sarebbe piú la stessa. Ma proprio per questo vorrei che fosse tolto dal muro. Perché gli italiani maturassero idee nuove – meno provinciali, piú chiare, piú generose – su che cosa significano i simboli, soprattutto i simboli che pretendono di essere universali»

di Sergio Luzzatto

Senza il crocifisso sul muro, dicono, l’Italia non sarebbe piú la stessa. Se il simbolo cristiano della Passione non avesse piú il diritto (o l’obbligo) di stare appeso alle pareti dei nostri edifici statali, tutti gli italiani verrebbero privati di qualcosa di particolarmente prezioso, perderebbero un ingrediente costitutivo della loro identità. Non lo dicono solo tanti cattolici, che pure – quando vogliono raccogliersi davanti all’arredo sacro che piú direttamente ricorda il sacrificio del Salvatore – possono ben farlo in una chiesa, inginocchiandosi davanti al crocifisso che sta presso l’altare. Lo dicono tanti laici. Quand’anche riconoscano di non credere nella Buona Novella, si affannano a spiegare che sí, che il crocifisso significa qualcosa anche per loro, o comunque che sta bene là dov’è. E poi, aggiungono, quel pezzo di legno e d’avorio non ha mai fatto male a nessuno.

Io penso che gli uni e gli altri abbiano ragione, a dire che senza il crocifisso di Stato l’Italia non sarebbe piú la stessa. Ma proprio per questo vorrei che fosse tolto dal muro: perché l’Italia del futuro non somigliasse all’Italia del presente. Perché gli italiani maturassero idee nuove – meno provinciali, piú chiare, piú generose – su che cosa significano i simboli, soprattutto i simboli che pretendono di essere universali. E perché raggiungessero una visione meno zuccherosa e piú razionale, meno retorica e piú critica, insomma una visione piú seria, dei modi in cui la presenza (e l’invadenza) della Chiesa nella vita collettiva ha condizionato e condiziona la nostra storia. Vorrei che il crocifisso fosse tolto dal muro, perché credo che un’Italia dove le pareti degli edifici statali fossero bianche non sarebbe un’Italia piú povera, e deteriore: sarebbe un’Italia piú ricca, e migliore.
Mentre vado scrivendo queste pagine, i giornali danno periodicamente conto dell’evolversi di un caso giudiziario pendente a Strasburgo dal 2006 per iniziativa di una madre di famiglia padovana che riguarda appunto il crocifisso in Italia, e la possibilità che l’Europa abbia voce in capitolo. La Corte europea dei diritti dell’uomo deve giudicare se l’obbligo di esporre il crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche italiane rappresenti o meno una violazione di diritti fondamentali come sono la libertà di pensiero e di educazione. Ma qualunque possa essere l’esito del contenzioso, io so – tutti noi sappiamo – che i pronunciamenti dei giudici di Strasburgo non basteranno a schiodare neppure un singolo crocifisso dai muri dei nostri edifici statali. Se anche la Corte europea sentenziasse (lo ha già fatto) che la presenza del simbolo cristiano nello spazio pubblico configura una forma di proselitismo religioso, e che in quanto tale è contraria alle regole di una buona convivenza europea, i crocifissi resteranno appesi alle pareti delle scuole, degli ospedali, dei tribunali italiani. Imperterriti, continueranno a vegliare sui grandi mutamenti del piccolo mondo due metri piú in basso: scolaresche di bambini dalla pelle di ogni colore, reparti di ammalati credenti o miscredenti, bande di criminali provenienti da ogni dove…

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Il crocifisso sul muro non è soltanto un problema di diritto, una questione di codici o di codicilli. Il crocifisso sul muro è soprattutto un problema di storia. Una storia lontana o anche lontanissima, risalente fino al Medioevo, e una storia vicina o anche vicinissima, dal primo Novecento a oggi. In Italia il crocifisso è là, davanti ai banchi dei bambini nelle scuole elementari, sopra il letto dei pazienti nelle stanze d’ospedale, dietro le sedie dei giudici nelle aule dei tribunali, perché là lo ha preparato a giungere un passato remoto, perché là lo ha imposto un passato prossimo, perché là lo mantiene una specie di presente storico. Cosí, ragionare del crocifisso di Stato equivale a ragionare di storia, ma – piú ancora – di antistoria. Non nel senso corrente di quest’ultimo termine, nell’accezione per cui è antistorico ciò che prescinde dalla realtà della storia, ciò che fa astrazione del passato e della sua intrinseca forza di verità. Piuttosto, nel senso gramsciano per cui è antistoria la storia “sbagliata”. La storia da rifiutare. La storia da raddrizzare.

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