La strada stretta della minoranza Pd

Rosy Bindi sottolinea di voler parlare «solo per sé». Pippo Civati reclama la primogenitura dell’opposizione interna e chiama tutti i dissidenti sul Jobs Act a raggiungerlo nella sua costituenda associazione. Gianni Cuperlo prova a interpretare una parte insolita, quella di leader della linea dura. Da Bersani a Damiano, molte teste pensanti non-renziane esprimono critiche radicali ma praticano concreti atti di ricucitura. Insomma, il (non)voto sul Jobs Act avrebbe dovuto segnare la nascita di un’area omogenea di resistenza a Matteo Renzi, incoraggiata dall’astensionismo emiliano, ma lo sfrangiamento della minoranza democratica non appare ricomposto. E i passaggi che li attendono sono difficili da affrontare restando uniti.

L’appuntamento più ravvicinato è la legge di stabilità. Che sia insoddisfacente agli occhi delle varie minoranze dem, va da sé. Che da questa insoddisfazione possa derivare un’opposizione come quella espressa contro il Jobs Act, è tutto da vedere. Certo, innanzi tutto per la concreta prospettiva del voto di fiducia, che renderebbe un No un gesto clamoroso di rottura al quale non pare pronto nessuno.
Il dover dare la fiducia al governo potrebbe però anche essere d’aiuto alla minoranza. Per molti di loro, non votare la legge di stabilità sarebbe obiettivamente difficile. Vorrebbe dire voltare le spalle, per esempio, alle decontribuzioni per i neoassunti, ai fondi per gli ammortizzatori sociali (aumentati rispetto ai testi originari anche grazie alle critiche della sinistra del Pd), al taglio dell’Irap sul costo del lavoro: insomma, a molte misure forse discutibili per formulazione, entità o priorità, ma sicuramente tipiche di una politica riformista. Con tutta l’antipatia che Cuperlo o Fassina possono nutrire per Renzi, e nonostante le loro recenti sbandate sull’uscita dall’euro, non sono tipi da dissociarsi così clamorosamente dal proprio stesso passato e dalla propria cultura politica.

Oltre tutto è evidente che la maggioranza del Pd non è più disposta a lasciar correre atteggiamenti per così dire “civatiani” – cioè dire sempre di no a tutto alludendo a rotture che poi non si consumano mai. Sono rendite di posizione che possono essere sfruttate occasionalmente, non sistematicamente e su ogni tema, anche perché fuori dal Pd intanto si rafforza un tipo d’opposizione al governo con la quale è difficile mischiarsi.
Non tanto quella sindacale (che pure, Landini l’ha ripetuto decine di volte, rimarrà nell’ambito della battaglia sociale e al massimo finalizzata alla rifondazione del ruolo delle confederazioni), quanto quella di cui è capofila il Fatto quotidiano: delegittimazione morale, associazione sistematica tra Renzi e Berlusconi-Verdini, progressiva mostrificazione dell’avversario. Se questo modello di opposizione diventa egemonico – come è facile che accada, se non altro per inerzia rispetto agli ultimi vent’anni di storia italiana – come possono muoversi senza finire schiacciati, per fare un esempio, coloro che sono stati o sono tuttora dalemiani?

Più avanti nell’agenda politica tornerà d’attualità la riforma elettorale, già oggetto di dissenso in passato ma nel frattempo mutata non poco proprio sui punti critici individuati nella primavera scorsa dai “non renziani”. Anche qui, da Bersani a Cuperlo a Civati a Bindi, contro il New Italicum rimane in piedi una critica di fondo, ma come muoversi oggi, mentre lo stesso capo dello stato ribadisce il suo imprimatur agli accordi raggiunti «con ampia condivisione» tra le forze politiche?
Naturalmente qualche influenza sul corso degli eventi la avrà anche Renzi. Che potrebbe continuare a infierire sui suoi oppositori come ha fatto negli ultimi giorni, oppure celebrare il passaggio di Jobs Act e legge di stabilità con un cambio non di linea, bensì di toni. O magari di argomenti. Le iniziative sui diritti civili sono calendarizzate per l’inizio del prossimo anno, perché non anticipare una mossa spiazzante su un terreno sul quale la sinistra interna farebbe fatica a trovare ragioni di dissenso?

Infine, come nel Palazzo è ben presente a tutti, siamo alla vigilia di un cambio di fase cruciale. Come si entrerà (e soprattutto come si uscirà) dalla partita del Quirinale, con grande probabilità fra poco più di un mese? Ecco la prova per Renzi, per il Pd (sempre quello dei 101), per tutti. Un anno e mezzo fa, il dramma di Montecitorio fece da acceleratore di processi politici imprevedibili, e di fatto fu la fine dell’epoca Bersani e la molla della scalata di Renzi al Nazareno. Le vittime di allora (intendiamoci, nella minoranza dem figurano anche diversi carnefici) aspettano il segretario al varco degli scrutini segreti ad alto quorum. Devono però stare attente a non esporsi, prima dopo e durante quel passaggio, perché uscito Napolitano dal Quirinale verrà meno anche il baluardo principale contro lo scioglimento della legislatura. Certo, Renzi non vuole affatto le elezioni anticipate. Ma non è il tipo da farsi mettere con le spalle al muro senza divincolarsi.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.