La sinistra che non ama il suo popolo

Alla fine ci siamo arrivati, del resto era abbastanza ineluttabile. Era nell’aria, nel clima di fastidio e ripugna verso il presuntuoso giovanotto rampante. Nello stupore col sapore acido verso i successi elettorali suoi e poi del suo partito. Nella frustrazione di un establishment intellettuale che senza capire perché e per come s’è visto improvvisamente tagliato fuori, senza più vecchi amici nei palazzi che contano, senza risposte nel telefonino agli sms finti-amichevoli, senza quella confidenza col potere e col potente che è sempre stata la formula dell’osmosi tra giornalismo d’èlite e politica.

Abbiamo toccato la frontiera più avanzata dell’antirenzismo, che mettendo nel mirino le ambizioni del cosiddetto “partito della Nazione” finisce per sparare sulla nazione medesima, colpevole di offrirsi come preda al raider di Rignano. Purtroppo su questo fronte avanzato del rancore ci conduce un direttore che pensavamo alieno ai tic dello snobismo di sinistra. Invece tocca proprio ad Antonio Padellaro, forse in debito d’ossigeno dopo che i suoi appelli alla pacificazione tra Santoro e Travaglio sono stati travolti in diretta nella prediletta piazza televisiva.
Ma eccoci. Siamo all’analisi del successo di Matteo Renzi secondo un giornalista politico che pure è cresciuto nel chiaroscuro della Prima repubblica. Perché Renzi «stravince»? «Perché ha rimbambito di balle un paese stremato» e perché «propone l’eterna paccottiglia nazionalpopolare che piace alle mamme trepidati (bonus bebè), ai piccoli e grandi evasori, ai proprietari di fabbrichette e a quelli che “di questi sindacati non se ne può più».

Capito? Copia-incolla da un commento di vent’anni fa sul boom di Berlusconi, e l’analisi del voto al Pd è fatta. E oggi, come allora, colpevoli di tutto sono questi imbecilli di italiani sempre pronti a farsi incantare. Rimbambiti. Tele-idioti, vittime un tempo di Mike Bongiorno come oggi di Barbara D’Urso. Incapaci di intendere, di volere e soprattutto di votare.
Chissà che cosa hanno fatto di male al direttore del Fatto le mamme trepidanti. Chissà perché ce l’ha coi proprietari di fabbrichette. Chissà dove vede i favori agli evasori fiscali. Una cosa è sicura: di fronte al Renzi rampante si riapre il baule del fastidio della sedicente sinistra dura e pura verso qualsiasi cosa odori di popolare, di normale, di ordinario, di comprensibile e immediato come sono i messaggi di Renzi e come sono le persone che a quanto pare li recepiscono e li apprezzano.

Eppure a me pare di ricordare come veniva scudisciata, la sinistra “di prima”, per il fatto di aver perso contatto ed empatia con gli operai, con le donne, con i giovani. La scioccante scoperta che questo naturale “popolo di sinistra” votava piuttosto per Berlusconi o per Bossi. Era vent’anni fa, e da allora per anni non abbiamo fatto altro che girare con la sociologia e la politologia intorno a questo inquietante scenario. Facendo colpa ai capi del centrosinistra di lontananza dalle masse, di eccesso di litigiosità, di un linguaggio astruso e politicista.
E oggi? Oggi che, forse più per demerito altrui che per meriti propri, arriva a sinistra un nuovo gruppo dirigente capace di capovolgere questo destino, e di ritrovare l’attenzione e il consenso di lavoratori, giovani, donne, di voti e di persone in carne e ossa dati per dispersi, ecco che gli italiani di cui si piangeva la lontananza diventano tutti «rimbambiti» affamati di «paccottiglia». Lo erano prima quando votavano Forza Italia, lo sono adesso che votano Pd.

È con questo vezzo profondamente elitista che Padellaro, e altri come lui, si pongono in attesa della manifestazione della Cgil di sabato affidando a Susanna Camusso la missione salvifica di dare voce, volto e forza agli italiani che non si bevono le promesse di Renzi e in quanto tali sono gli unici meritevoli di appoggio e simpatia.
Capitò già a Sergio Cofferati, un destino del genere. Si sa come andò a finire. Perché fatalmente non può che finire male, quando si pretende dal sindacato (anzi, da un sindacato) di svolgere un ruolo tutto politico e perfino morale che non è il suo. Per di più schiacciandolo contro il suo più grande limite: l’essere appunto rappresentante di una parte sola del mondo del lavoro, neanche maggioritaria. E quindi accettare di mettere in piazza una divisione tra italiani intelligenti e per bene, e italiani scemi ed evasori: esattamente il racconto dal quale la Cgil, per il proprio bene, dovrebbe fuggire.

E dal quale vuole uscire saggiamente Maurizio Landini, sul quale si appuntano le aspettative di leadership politica della sinistra-sinistra che già bruciarono Cofferati e che di volta in volta si sono consumate addosso a Bertinotti, a Vendola, a Ingroia, a Tsipras. Il capo della Fiom, per quanto se ne sa, ha come obiettivo – largamente alla sua portata – la guida dell’intera Cgil e si innervosisce quando gli si parla di partiti e aggregazioni: lo considera, a ragione, un indebolimento del lavoro che sta facendo adesso.
Soprattutto però Landini non si presta all’atteggiamento, snobistico fino al disprezzo, espresso da editoriali come quello del Fatto. Non si presta perché lui non è di quello stampo, e soprattutto perché casomai proprio sulla reazione ai tic anti-popolari della sinistra politica e sindacale Landini ha costruito un’intesa quasi antropologica con Matteo Renzi, vedremo se e quanto destinata a riaffiorare quando sarà passato l’autunno del conflitto su Jobs Act e dintorni.

Saranno faticosi, questi giorni di avvicinamento al doppio appuntamento della Leopolda a Firenze di San Giovanni a Roma. Eventi completamente diversi, non confrontabili, eppure destinati a venire raccontati in parallelo, contrapposti. Renzi sarà abile a sottrarre se stesso e il proprio gioiellino toscano al confronto con la prevedibile grande affluenza sotto le bandiere della Cgil. Una volta di più, però, il problema non è come se la caverà Renzi, che se la caverà sempre e comunque bene. Il problema è se e come possa cavarsela quel pezzo di sinistra che rimane attardata e confinata negli atteggiamenti che l’hanno già condannata a sconfitte e frustrazioni. Se insomma come possa salvare se stessa, visto che rimane comunque un pezzo importante e indispensabile dell’Italia che si appassiona e partecipa.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.