Il miglior governo Renzi possibile

Non è il monocolore Renzi che lui sognava nella breve marcia di avvicinamento all’obiettivo della sua giovane vita. Ma è il governo più vicino al suo ideale che le condizioni politiche, gli equilibri del PD e l’eredità della Seconda repubblica gli hanno consentito di fare.

Dopo tre anni, non abbiamo più un governo del presidente, inteso come presidente della Repubblica. Ed è Napolitano che esplicitamente annuncia il cambio di fase: nella buona e nella cattiva sorte, «senza mettere la mano sul fuoco» sulla durata, questo governo è tutto soltanto del premier che lo guiderà.

Del resto, trattandosi di Matteo Renzi, non potrebbe essere altrimenti.

Anzi, il capo dello stato ha voluto, inusualmente se vogliamo, calcare la mano sugli elementi di novità: Napolitano aiuta Renzi a rafforzare il messaggio del cambiamento perché, forte dell’esperienza, capisce che questo è il punto di forza di un tentativo che comunque vadano le cose sarà l’ultimo dei suoi due mandati.

È un governo forte? È debole? Riuscirà a rispettare la micidiale tabella di marcia alla quale il premier s’è legato? Farà tutte le riforme promesse o solo un pezzo? Durerà otto mesi, un anno, quattro anni?

Escludendo a occhio l’ultima opzione (per motivi che hanno a che vedere non con la qualità dell’esecutivo ma con la fragilità del quadro politico generale), salta agli occhi la blindatura che Renzi ha realizzato sul versante PD: sarà un dato di stabilità importante, non così scontato.

I rapporti di forza col NCD non possono essere misurati sulle scontate presenze ministeriali, quanto sull’esistenza o meno della famosa clausola che congela la riforma elettorale fino al completamento di quelle costituzionali. Sapremo lunedì in parlamento se questa clausola esiste veramente.

La perfetta suddivisione tra uomini e donne rappresenta un risultato storico, con l’aggiunta di avere donne a capo di dicasteri pesantissimi. Soprattutto per Federica Mogherini e Roberta Pinotti si tratta di sfide clamorose. Anche se l’assenza di Emma Bonino è negativa secondo noi, l’unica scelta difficile da capire e condividere.

Poi c’è l’apparato economico e del welfare. E c’è la giustizia. Dove le scelte sono solide, garantiscono competenza, tenuta e un alto tasso di volontà riformatrice. Più difficile scommettere sul fatto che Padoan, Poletti e Guidi, per le rispettive provenienze, sappiano accompagnare la missione storica che Renzi si è autoassegnato: la rivoluzione contro l’establishment nazionale.

Ma su questo punto cruciale, come del resto sull’intera immagine e sorte del governo, alla fine conterà solo l’attività e l’energia che Matteo Renzi riuscirà a metterci.

Pier Carlo Padoan è una garanzia assoluta per qualsiasi istituzione, paese e osservatore internazionale. Ma prima di questo è un uomo di sinistra di stampo moderno, provatamente riformista, l’opposto della conservazione. Garantisce i mercati, come usa dire. La speranza è che sappia anche stupirli un po’.

Così come Giuliano Poletti, che Renzi colloca sulla frontiera per lui più importante. È vero, Poletti proviene dalle coop rosse, dunque è cresciuto dentro il più tradizionale degli ambiti di potere della sinistra italiana. Detto questo però è detto molto ed è detto poco, perché quel mondo ha subìto negli ultimi anni cambiamenti ed evoluzioni perfino drammatiche. E la scelta di Renzi – ovviamente destinata anche a rassicurare chi a sinistra si sente minacciato dalle ricette alla Pietro Ichino – significa affidare il ruolo centrale nella riforma del welfare e del mercato del lavoro non alla mano pubblica, né alle ricette laburiste old style, bensì a quello che una volta si chiamava Terzo settore, cioè l’enorme bacino di compensazione tra pubblico e privato, tra stato, imprese e cittadini, dove vivono le esperienze più avanzate di flessibilità positiva, di innovazione nella fornitura di servizi alle famiglie e alle imprese, e dove la tenaglia della burocrazia prende di meno.

Gli snodi cruciali della polemica politica, quindi del rischio per il governo, sono anche altri, a cominciare dalla giustizia. E qui la scelta di Andrea Orlando (smentendo le voci giornalistiche sulla promozione di alcuni bravissimi magistrati) dà garanzia di indipendenza rispetto al gioco dei poteri corporativi di giudici e avvocati. Che cosa poi ne pensi Berlusconi – visto che questa pare essere una domanda inevitabile – è in realtà irrilevante, comunque possiamo stare sicuri anche su questo lato del problema.

Insomma, molte altre cose si potranno dire e si diranno sulla squadra di governo, sulla sua età media e sui molti esordienti. Sulla cancellazione secca di alcuni dicasteri, che torneranno sotto forma di deleghe ai viceministri e ai sottosegretari: le pari opportunità (seguirà ampio dibattito, non facilmente risolvibile con la quantità di donne promosse al governo), l’integrazione (dove può essere giudicato positivo e coraggioso che Renzi non si sia posto il problema di sostituire Cecile Kyenge con altre figure simbolicamente altrettanto forti), gli affari europei.

Dove può arrivare il governo Renzi-Delrio? Intanto possiamo star certi che il premier non s’è dato una scadenza troppo ravvicinata. Insomma, non c’è il trucco dell’esecutivo fatto soltanto per poi svicolare verso le elezioni anticipate nel più breve tempo possibile. Per certi aspetti però, senza voler risultare offensivi, è anche vero che questo è un governo per così dire “rinunciabile”: la mano di chi l’ha formato e lo guiderà è più forte delle logiche politiche che l’hanno ispirato e del potere d’interdizione dei partiti che compongono la maggioranza. Per cui, il giorno che Renzi riterrà esaurito il margine di operatività positiva dei suoi ministri, potrà staccare la spina senza rimpianti. Chiaro, sempre se nel frattempo saranno arrivate in porto le riforme della legge elettorale e, almeno, del senato.

Con più calma andranno riletti i passaggi che hanno portato a questo risultato, ampiamente accettabile nelle condizioni date. Perché in più di un momento s’è avvertita, dietro l’energia di Renzi, la dedizione al lavoro e la capacità di relazione di Delrio e la indispensabile esperienza politica di Franceschini, l’assenza di una leadership collettiva del nuovo corso democratico. E questo, se forse non è un problema adesso che si parla di governo e il manico è saldamente nelle mani del nuovo premier, sarà un problema presto. Perché questo punto debole è stato individuato da tutti, fuori e dentro il PD; sarà amplificato dalle scelte di chi (Civati, Tocci) si chiamerà fuori nelle prossime ore; e dovrà essere risolto fatalmente delegando una parte del potere accentratore che adesso detiene il segretario-premier.

Ma questa oggi non è un’urgenza per l’Italia. All’Italia premeva di più sapere se avrebbe avuto da Renzi e dal suo PD un governo all’altezza della situazione drammatica del paese. Oggi scommettiamo di sì, per stima, per valutazione razionale e per ottimismo della volontà. Poi vedremo alla prova dei fatti.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.