Va a finire che decide Berlusconi

Il momento nero del governo Letta inizia fattualmente nei giorni del rapimento di stato di Alma e Alua Shalabayeva. Ma il punto di svolta politico si colloca più avanti, nella prima settimana di luglio, ed è quando comincia a diffondersi la convinzione che il governo possa reggere molto più del previsto e del prevedibile. Almeno fino al 2015, per via del semestre di presidenza italiano della Ue. Qualcuno aggiunge l’Expo, e si arriva addirittura al 2016.
Fra tanti errori altrui, questa è stata forse l’imprudenza del presidente del consiglio. Strana, visti il suo carattere e la sua cultura. Far capire al proprio partito che la fine delle larghe intese potrebbe essere remota. E dire apertamente a Matteo Renzi che il suo appuntamento col destino è rinviato a un futuro indefinito e lontano.
In queste ore Letta paga il prezzo di questa ambizione di durata. Comprensibile, vista l’agenda delle emergenze nazionali. Eccessiva, rispetto alla solidità del quadro politico.
Come ha scritto ieri sera lo stesso Renzi, non sta scattando la tagliola crisi-elezioni anticipate. Infatti. È “solo” in corso un’operazione di ridimensionamento del governo e del premier.

L’attacco di Renzi su Alfano può finire solo bene per il sindaco.
Accantonando l’ipotesi della caduta del governo (a parte la circostanza che c’è ancora da fare la riforma elettorale), Renzi vince anche solo intestandosi la battaglia contro le vergogne del Viminale: se arriva a far saltare Alfano, si impone come capo del partito (che è tutto su questa linea) ben prima del congresso; se non ci riesce (perché alla fine, come pare, Letta ed Epifani non percorrono fino in fondo questa strada, o ne vengono impediti), Renzi comunque ha cancellato l’unico fattore negativo che gli rimaneva appiccicato: quello del frequentatore di Arcore. La nemesi, contro chi nel Pd gli dava del cripto-berlusconiano, è completa.
Oltre alla “narrazione” antiberlusconiana, utilissima per il mercato interno congressuale, Renzi ne ha poi già allestito un’altra indirizzata verso il pubblico più vasto, anche anzi soprattutto di centrodestra: la vicenda Shalabayeva come parabola del paese in cui i politici la fanno sempre franca e le colpe vengono scaricate sui poveri cristi, in questo caso poliziotti (a dire la verità, fino ad adesso, si tratta di un paio di alti funzionari in età da pensione: ma su questo la retorica renziana sorvola). Renzi non avrà ottenuto la testa del ministro degli interni, ma ha materiale in abbondanza per i prossimi mesi di battaglia.
Le carte per uscire dall’impasse della vicenda Alfano le ha comunque ancora Enrico Letta, che potrebbe provare a evitare al Pd l’ennesima delusione.
Ieri a Londra il premier non ha solo sottolineato «l’estraneità di Alfano» dalla vicenda kazaka. Ha anche stressato molto sul valore prioritario e soverchiante della stabilità politica, indispensabile all’Italia per darsi qualche chance nel mondo.
Un messaggio per il “destabilizzante” Renzi? Forse.
Forse però sull’altare della stabilità politica ci sono sacrifici che possono essere chiesti, o imposti, anche ad altri. Per esempio, a chi avrebbe davvero tutto da perdere da una crisi di governo.
Per esempio, a Silvio Berlusconi.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.