La consacrazione di Bersani

La vittoria di Pier Luigi Bersani era annunciata, ma come ha riconosciuto lui stesso non nelle dimensioni di cui si parla in questa serata di domenica, cioè poco sopra o poco sotto il 60 per cento. Tutte le regioni conquistate tranne la Toscana, tutte le città importanti tranne Firenze. Risultati altissimi al Sud e a Roma (dal 70 per cento in su).

Quel po’ di affluenza in meno che c’è stata testimonia forse di qualche scoraggiamento da parte dell’elettorato d’opinione renziano, ma per il resto nessuno dei tentativi operati dal sindaco di Firenze nell’ultima settimana ha avuto successo: sul segretario sono confluiti massicciamente i voti dei candidati esclusi, nessuno dei suoi elettori ha cambiato opzione, sull’impossibilità di portare ai seggi i simpatizzanti motivati negli ultimi giorni s’è scritto in abbondanza. Non si può escludere che abbia ragione Romano Prodi e che, in extremis, Renzi abbia pagato un po’ in casa propria, cedendo al concorrente voti di elettori democratici che si sono infastiditi per le polemiche sulle regole. Se è vero, si vedrà quando saranno disponibili i dati sui voti assoluti.

L’ampia vittoria consegna a Bersani una guida molto solida della coalizione di centrosinistra. I voti delle persone in carne e ossa arrivano a dare sostanza a una leadership che negli ultimi due mesi è visibilmente cresciuta. Il segretario aveva già vinto la sua scommessa con quei tre milioni abbondanti ai seggi del primo turno, con la campagna elettorale sempre affollata, col Pd spinto in alto nei sondaggi, con tutti gli altri attori politici messi ai margini dalla comunicazione e dall’attenzione dell’opinione pubblica. Mancava l’ultimo tassello, il più importante anche perché in alcuni momenti della campagna – per merito di Renzi – la vittoria del segretario non poteva esser data facilmente per scontata. Per di più cosa importante, il successo al ballottaggio arriva con una base elettorale ancora ampia: la partecipazione è stata buona anche questa domenica, sotto la pioggia e dopo le asprezze. Per molti motivi, dunque, Bersani non esce delle primarie come c’era entrato, il che gli dà ragione dopo le forzature che ha dovuto operare dentro e contro la sua stessa maggioranza.

Dal suo primo discorso al Capranica s’è capito che Bersani da adesso in poi si impegnerà a far risaltare il proprio status di aspirante presidente del consiglio, a proseguire nel rinnovamento interno al partito e a rendere più precisa la linea per la campagna elettorale. Che sarà «nessuna promessa»: ricordare proprio nel momento della festa che il paese è in grave crisi equivale a raffreddare sul nascere i possibili entusiasmi di un tipo di sinistra convinta che ora si possa ripartire con la politica del tassa e spendi.

Neanche il Pd, questa notte, è lo stesso di due mesi fa. Non solo perché alcuni sondaggi lo proiettano perfino al 34 per cento, ma per la prova di democrazia competitiva che ha saputo affrontare. E soprattutto per ciò che ha saputo fare Matteo Renzi. Il riconoscimento di vittoria concesso via Twitter dal primissimo momento, quando ancora si disponeva solo di un exit poll e di pochi voti veri scrutinati, è l’ultimo contributo in ordine di tempo che il giovane sfidante ha dato al rovesciamento dei riti e delle abitudini della politica, nel centrosinistra e in generale.

È presto ora per dire come saranno gestite, rispettivamente, la vittoria di Bersani e la sconfitta di Renzi.
Sono possibili solo alcune ipotesi.
Per quanto riguarda il segretario, stile e convenienza politica spingono verso la massima inclusione possibile dei perdenti (che assommano comunque a oltre un terzo dell’elettorato di tutto il centrosinistra) e del loro leader, che sarà evidentemente protagonista della scena per molti anni a venire. Bersani sa bene che quelle percentuali così alte nei sondaggi democratici dipendono dai volti diversi che il Pd ha saputo mostrare in questi mesi. E che tagliando pezzi (come nel calore delle polemiche o nell’entusiasmo della vittoria) si rischia di perdere anche pezzi di elettorato. Per finire, Renzi e le primarie hanno portato il Pd a competere sul terreno dell’avversario più aggressivo e pericoloso del momento, cioè Beppe Grillo: qualsiasi passo indietro, qualsiasi ripiegamento sui vizi e le pigrizie del Pd “di prima”, tornerebbe a regalare spazi di conquista per il M5S. Sono lì pronti, che non aspettano altro.

Per quanto riguarda Renzi, il discorso è più complesso. Non c’è motivo di dubitare del suo impegno a sostenere la candidatura di Bersani a palazzo Chigi e la corsa del Pd verso la vittoria elettorale di primavera. Certo qualcosa dipenderà anche dalla disponibilità bersaniana a includere nelle liste elettorati una parte del nuovo ceto politico promosso dal sindaco, e dalla “tenuta” della promessa di ricambio. Ma il punto vero è un altro, più di fondo. Riguarda il carattere di Matteo Renzi e la sua scommessa su se stesso a lunga gittata. Che non è la scommessa di un “secondo”, di un vice. S’è capito benissimo dalle sue prime dichiarazioni. Tutte improntate a lealtà ma insistenti sul punto cruciale: anche ammesso che me lo chiedessero, non mi farò coinvolgere in alcun modo nella cogestione della prossima fase politica. Questo significa, per lui, «tornare a Firenze»: significa che si terrà fuori dalle elezioni politiche e dalla formazione del governo, aspetterà a vedere come Bersani gioca una partita che (come entrambi hanno sempre detto) a questo punto è tutta del segretario, convinto (immagino) che né il pieno rinnovamento né il governo efficace del paese possano affermarsi senza un radicale cambiamento del Pd.

“Adesso” Renzi non ce l’ha fatta, ha ceduto il passo a un ottimo leader del centrosinistra. Come ha detto ai suoi sostenitori alla Fortezza ci riproverà, ci riproverà “presto”.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.