Continuiamo così, facciamoci del bene

Né i commenti a bocce ferme dei due ammessi al ballottaggio, né quelli degli esclusi, né i dati definitivi del primo turno (diversi da quelli della serata, dunque più favorevoli a Bersani) spostano il giudizio dato a caldo nella notte delle primarie.

In generale, il Pd rimane in cima alla cresta di un’onda che ingrossa i suoi consensi, lo impone quasi con violenza all’attenzione dell’opinione pubblica più ampia (il duello televisivo stavolta sarà nel prime time del primo canale generalista) e allarga ulteriormente il gap concorrenziale con le altre forze politiche, non solo il derelitto Pdl ma a questo punto – fatto nuovo – anche il M5S.

Pier Luigi Bersani esce da vincitore dal primo turno non solo per il vantaggio largo. Prima Vendola (lo scorso anno), poi il medesimo Renzi lo avevano sfidato a fare le primarie e poi l’avevano incalzato.
Il segretario avrebbe potuto arroccarsi in un fortino che tutta la nomenklatura democratica (come s’è visto) avrebbe volentieri presidiato, e continuare nella tattica di avvicinamento passivo alle elezioni politiche che era stata la sua linea di condotta fin dal 2009. L’estate scorsa ha deciso di fare l’opposto, sulla base di una lettura corretta non tanto dei rapporti di forza interni bensì della relazione drammatica fra elettori e partiti, fra cittadini e democrazia. Sta vincendo la scommessa. A questo punto non è solo il favorito per palazzo Chigi: è per tutti un leader riconosciuto, dotato di una forma peculiare di carisma e di visione. Insomma ciò che in tre anni di segreteria del Pd (e di scelte spesso troppo statiche) non era riuscito a diventare. Il suo punto di forza è la morbidezza del linguaggio nei riguardi dei suoi concorrenti. L’ha voluto ribadire ieri facendo riferimento ai contatti con Renzi. Non è buonismo: è un tratto caratteriale misto a calcolo e alla conoscenza di ciò che piace e non piace al popolo del centrosinistra. O meglio, a quella parte che si ritrae davanti al linguaggio diretto e arrembante di Renzi.

È molto difficile che Matteo Renzi diventi il candidato del centrosinistra per guidare il governo: trecentomila voti sono ardui da rimontare. Ma il sindaco di Firenze ha tutte le ragioni per brindare. Anche la sua scommessa è vinta. Ha definito uno standard per la competizione democratica nel suo insieme, in tutto l’arco politico, non solo a sinistra. È conosciuto e seguito anche fuori dall’Italia (alla vigilia si informava sulle sue chances il laburista David Miliband). In questi ulteriori cinque giorni correrà giustamente per vincere, comunque è ragionevole per lui puntare a chiudere domenica intorno al 40 per cento: francamente una quota impensabile alla vigilia, per uno sfidante che il corpo del Pd aveva esorcizzato come alieno. E pensare che l’entourage del sindaco negli ultimi giorni temeva una disfatta, pensavano di poter rimanere inchiodati al 20 per cento. Perfino loro avevano sottovalutato la domanda di un cambiamento drastico proveniente anche dagli strati più fedeli dell’elettorato.

Il milione abbondante di voti renziani è solo una parte del bottino elettorale che la presenza e le idee di Renzi possono consegnare al partito: come scrivevamo alla vigilia, ciò rende Renzi imprenscindibile. Bersani ha dimostrato in ogni occasione di saperlo. Sul fairplay il segretario verrà ricambiato nei prossimi giorni, anche se ieri s’è capito che Renzi non smette mai di combattere. Del resto, per recuperare deve assaltare: rimane da parte sua la critica all’usato sicuro, continua l’affondo verso il corpo del gruppo dirigente allineato dietro al segretario. Lesto come sempre, Renzi “usa” da subito il nervosismo eclatante di alcuni big, da Rosy Bindi a Franco Marini, per intaccare l’immagine di rinnovatore che Bersani è riuscito comunque a recuperare.

Allora risalta a maggior ragione il grossolano errore di chi si mette dalla parte del torto tornando a minacciare ritorsioni sulle candidature per le politiche, o rese dei conti congressuali. Scelta autolesionista: sembrano voler dare ragione a chi li descrive come asserragliati in difesa dei propri ruoli. Si capisce meglio ora quanto ci avessimo preso, quando avevamo intuito la volontà innanzi tutto di Bersani di approfittare delle primarie per rimescolare tutte le carte. Il nervosismo nasce più da qui, che dal risultato di Renzi.
È chiaro che quel 35 per cento (al primo turno, destinato a crescere, conquistato dallo sfidante in zone dove il Pd è forte) cambia gli equilibri interni. Soprattutto, diventa irreversibile il protagonismo, al di là degli schieramenti attuali, di una leva di dirigenti giovani: cresciuta nello scontro delle primarie, destinata a crescere ancora nella campagna elettorale nazionale.

Un quadro incoraggiante, nient’affatto scontato fino a pochi mesi fa. Per parafrasare un celeberrimo fustigatore dei costumi della sinistra, c’è da dire: continuiamo così, facciamoci del bene

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.