Uno che si chiamava Dino Risi

L’immagine è questa. Lui e lei si trovano chiusi nella stanza di un albergo ad amoreggiare su un divano. Lui è l’aiuto-dell’aiuto-regista, però è giovane e bello. Lei è la diva. D’improvviso vedono del fumo uscire da un arazzo arrotolato. Il giovane si stacca dalla sua dama e si avvicina al tappeto. Ci trova un uomo con il sigaro in bocca, roso da una gelosia folle, che ha gli inconfondibili connotati del regista: «Non capisco come sia finito qui dentro». Se a quest’ultimo spetta la palma per la migliore interpretazione a noi interessa invece il giovane. Perché è lì che la sua vera vita comincia e perché ne avrà ancora tanta da vivere.

È l’autunno del 1940. Tempo di guerra. Sul lago di Lugano si sta girando Piccolo mondo antico. Il primo film prodotto dall’avvocato trentottenne Carlo Ponti. Il regista, l’uomo con il sigaro, è Mario Soldati. Il suo aiuto è Alberto Lattuada. Poco prima dell’inizio delle riprese quest’ultimo ha incontrato in un antiquario un giovane studente di medicina: «Sto cercando un assistente. Vuoi venire tu?». Iniziò così.
Appena la vide sul set il giovane assistente si innamorò di lei. E anche lei, un po’, di lui. Complici la sua giovane età, le foglie cadenti, un lago misterioso, il fuoco dei camini sempre accesi. Senza contare Frank Sinatra, che lui la sera le faceva ascoltare per ore. Lei era Alida Valli, la diva più desiderata dagli italiani. Lui, allora, era solo uno che sia chiamava Dino Risi.

Quando sessant’anni dopo, durante l’ultima primavera del secolo, il settimanale Film Tv, mi affidò il compito di raccontare gli anni Sessanta attraverso le voci di chi li aveva vissuti (tempo: una giornata), io avevo un solo nome nella testa, il suo. E forse un solo titolo: Il sorpasso. Se Mario Monicelli era stato il maestro della commedia all’italiana (con lui nasce, I soliti ignoti nel 1959, e con lui muore, Amici miei nel 1974), Risi era stato l’indiscusso cantore del decennio dorato. Dopo aver fotografato gli anni Cinquanta, era riuscito a costruire anche l’immaginario definitivo del nostro boom.
E allora più che mai quei favolosi-anni-Sessanta erano l’eterno ritorno, il revival perenne, il tormentone ciclico. Proprio in quei giorni sui grandi schermi viaggiavano felici lo statunitense Pleasantville e Il cielo in una stanza, dell’oliata ditta Enrico e Carlo Vanzina. Barbara Palombelli stava uscendo con il suo C’era una ragazza…, lettera aperta ai figli per raccontare il Sessantotto, mentre in televisione andava in onda la quasi omonima trasmissione – C’era un ragazzo – condotta dal più titolato gestore del pezzo di quegli anni: Gianni Morandi. Anche Roma si apprestava a celebrare l’arte del decennio dorato con una grande mostra dedicata alla Pop-Art, mentre in edicola ritornavano le edizioni originali di Diabolik. Gli anni Sessanta erano – ancora – ovunque. Il tutto a suggello di un ventennio che aveva sempre strizzato l’occhio al passato, a quel passato lì. Quel passato, insomma, che continuava a riemergere come lava con le rotonde sul mare, le giacche a tre bottoni, i Celentano & Mina che continuavano a sfornare dischi, le ospitate dei reduci nei contenitori domenicali. Eccetera. Ma gli anni Sessanta, per me, erano solo suoi. E soprattutto nei suoi film erano rimasti ibernati come nuovi.

Anche se lui sarebbe bastato per tutti, pur di onorare il compito, scelsi di girarci attorno. Girai a piedi tra i Parioli e il centro e in mezza giornata riuscii a rompere le scatole a due scrittori (Alberto Bevilacqua, al telefono, e Barbara Alberti al Teatro Parioli), a un sociologo (Alberto Abruzzese, alla Facoltà di Sociologia di Roma in via Salaria), poi a un “filosofo” (Luciano De Crescenzo a Piazza di Spagna), in seguito a uno storico del cinema (Lino Micciché, alla terza università di Roma, in piazza Esedra) e all’attore simbolo di quel decennio (Alberto Sordi all’Hotel Hassler di Trinità dei Monti). Ognuno di loro mi aveva dato una personale visione – entusiastica o critica – di quel decennio. Ero certo che Risi avrebbe avuto la misurata spudoratezza di consegnarmi la cosa più vicina a una verità.

Sapevo che fino a quel 1940 non era stata poi così facile la sua vita. Nato a Milano nell’anno della Rivoluzione russa e del primo Giro d’Italia, suo padre, uno “stonato melomane” che durante la prima guerra mondiale aveva avuto un caporale di nome Benito Mussolini, era medico del Teatro alla Scala. Lui un bambino che faceva lezioni di piano, si faceva incantare dai tramonti dei fondali e viveva di piccole suggestioni (nel camerino di Toscanini aveva visto il maestro cambiarsi la camicia dopo un secondo atto). La morte improvvisa del genitore cambiò tutto. Dino divenne un ragazzo difficile. A diciassette anni decise di uccidersi ma gli mancavano dieci lire per comprare la pistola e l’armaiolo, fortunatamente, non fece sconti. Poco dopo il fascismo spaccò la sua famiglia in due. Il fratello di sua madre, Guido, fu addirittura implicato in un attentato al Duce. Lo salvò l’amicizia di Mussolini per il padre. Dino superò la maturità studiando in una saletta riservata del casino di San Pietro dell’Orto, dove la maitresse Maria lo aveva preso a ben volere. Poi si iscrisse a Medicina. Quando scoppiò la guerra d’Africa decise di partire volontario ma dopo due ore di coda all’ufficio reclutamento perse la pazienza e se ne tornò a casa. Fu così che si trovò pronto per quel casuale appuntamento con il cinema.

Terminato il film di Soldati, a Milano, Risi presentò Alida Valli alla madre prima di accompagnarla al treno. «Ti chiamo domani», promise lei. L’avrebbe rivista dopo trent’anni. A chiamarlo, invece, ci pensarono le armi, ma al termine del corso Allievi Ufficiali una provvidenziale epatite lo spedì in ospedale. I suoi duecento compagni partirono così per la Russia senza di lui. Più della metà ci avrebbero perso la vita. Terminò l’università da internato, a Ginevra. Lì, in una baracca tra i ghiacciai dello Jungfrau, una sera vide Giorgio Strehler recitare L’uomo dal fiore in bocca e incontrò Claudia, che due anni dopo sarebbe diventata sua moglie.
Laureatosi in Medicina, pensò di specializzarsi in Psichiatria, ma gli bastarono sei mesi al manicomio di Voghera per capire che non era la sua strada. Dopo la guerra si imbatté nell’avvocato Gigi Martello, un vulcanico produttore, titolare della Società Cortometraggi di Milano, che vide in lui il fuoco. Producendogli diciotto cortometraggi in cinque anni Martello cambiò il corso della sua vita. Quel giovane non sarebbe mai stato un medico.

In realtà Risi non sapeva bene cosa fare. Era certo solo di una cosa: non aveva voglia di fare nulla. Voleva solo essere ricco e girare il mondo. Incredibilmente, con poca fatica e molto talento, riuscì nel suo intento. La svolta fu quando realizzò Buio in sala (1949), un cortometraggio che raccontava la trasformazione interiore di un piazzista dopo essere entrato in una sala cinematografica. Quel piccolo film costato duecentomila lire piacque a Ponti che lo comprò per due milioni (per distribuirlo qualche anno dopo come prologo di Le infedeli, 1953, di Steno e Mario Monicelli). Quando il produttore lo fece venire a Roma, per dargli personalmente l’assegno, lui non aveva neppure un conto in banca.

La grande famiglia
Sollecitato dallo stesso Ponti a trasferirsi nella Capitale, Risi iniziò a collaborare regolarmente alla stesura di soggetti e sceneggiature. Era il 1950, dormiva in una pensione spaventosa, in piazza Sant’Alessandro, vicino a piazza Venezia. Sul suo stesso piano c’era una grande copisteria dove trenta giovani donne in grembiule nero, chine sulle loro macchine da scrivere, mitragliavano senza tregua lettere commerciali, segno che l’economia cominciava a girare. Ma tra loro c’era anche chi batteva delle storie per il cinema. Segno che anche quell’arte si stava svegliando.

Risi si trovò in una Roma un po’ svagata, quieta e sorniona. La vita era piacevole. Il cinema una grande famiglia. Ponti e Dino de Laurentiis si erano appena messi insieme. Passavano le loro giornate in un enorme ufficio a due passi dal Quirinale e cercavano di far andare le loro vite di pari passo, nonostante le loro differenze. Ponti doveva molto al padre. Proveniva da una facoltosa famiglia d’industriali tessili di tradizione risorgimentale e, divenuto amministratore dei patrimoni di molte famiglie lombarde, fu introdotto da lui presso uno dei suoi clienti, Antonio Mambretti Sonzogno Juva, che aveva investito cospicui capitali nella società cinematografica Artisti Tecnici Associati (ATA). Nel giro di poco tempo il giovane Ponti era divenuto amministratore dell’ATA con il compito di responsabile della produzione arrivando così al suo primo film come produttore proprio con Piccolo mondo antico nel 1941.

De Laurentiis, invece, aveva cominciato dalla strada, a vendere spaghetti per conto del padre e via via aveva intrapreso la trafila del cinema lavorando come macchinista, elettricista, comparsa, generico, fino ai primi passi nel campo della produzione, dando il via a una carriera che, come per il socio ebbe il medesimo anno di partenza, il 1941, quando costituì la sua prima società, la Realcine. La loro unione fu recintata dall’incontro fatale con le loro donne: iniziò quando De Laurentiis si invaghì di Silvana Mangano e si chiuse dopo che Ponti si innamorò di Sophia Loren. I due lavoravano in un salone con due grandi scrivanie. In una seconda stanza sedeva Mambretti, al suo fianco un enorme frigorifero in nome del quale Ponti e De Laurentiis a turno facevano capolino solo per afferrare una bottiglia di Campari. Dietro la sua scrivania spiccava la fotografia di una mucca sovrastata da un incisivo monito. “Il cinema non è una vacca da mungere”. In nome di quel diktat non firmò Pane, amore e fantasia perché non poteva avere successo un film che avrebbe offeso l’arma dei Carabinieri.

Un giorno Ponti si ricordò che Risi era medico e gli chiese di sceneggiare Anna, la storia di una donna che si fa suora in seguito a una delusione amorosa e poi ritrova in ospedale il suo antico fidanzato. Il film era destinato alla Magnani, ma De Laurentiis, che si era appena messo con la Mangano, la impose al socio Ponti: «Questa parte è per Silvana». Ma nel film apparve anche, in un piccolo ruolo (l’assistente di Vittorio Gassman al night-club) una esordiente e sconosciuta Sofia Lazzaro, la futura Sophia Loren consorte di Ponti. Tutto stava nascendo allora. E tutto sarebbe rimasto nel tempo. Produttori, registi, sceneggiatori e attori divennero grandi, ricchi, famosi e immortali.

Erano gli anni giusti per chi voleva fare cinema. I registi che avrebbero inventato la futura commedia all’italiana avevano un pugno di produttori che se li litigavano a suon di proposte milionarie. Risi questo lo capì subito. Tra i suoi contendenti ci fu anche Goffredo Lombardo, produttore della Titanus, che gli affidò la trilogia campione di incassi Poveri ma belli (1956-1959). Lombardo, che sedeva dietro una immensa scrivania ricoperta di ninnoli e statuette, aveva due intercalari. Uno era «Non so se mi spiego». L’altro era «E compagnia bella». Quando Risi varcava la sua porta lo riceveva con gentilezza, ascoltava la sua storia poi suonava un campanello. A quel punto spuntava il napoletano Sergio Bonotti, figura cruciale del cinema italiano (oggi praticamente assente dalle cronache storiografiche) che Risi riduceva al ruolo di “assaggiatore”. Era il direttore esecutivo della casa, l’uomo al quale spettava il compito di prendere le decisioni operative. Lombardo gli si rivolgeva per ogni questione: «Bonotti, Risi mi ha raccontato, non so se mi spiego, una storia interessante. Un gruppo di suore di clausura che vivono in un convento in mezzo alla neve e compagnia bella. Mi sembra una storia singolare. Carina, non pensa?». Bonotti era uno che la sapeva lunga. Leggeva insieme agli autori le sceneggiature scena per scena, poi a ogni pagina si fermava e chiedeva: «Fa ride o fa piagne?». Non aveva importanza il contesto, il tema o l’eventuale ideologia dietro al film. Lui valutava solo l’ossatura, gli effetti spettacolari. Bonotti, grazie a quel suo metro svizzero di valutazione, aveva contribuito a lanciare i melodrammi di Raffaello Matarazzo con la coppia Nazzari-Sanson (contro il parere di tutti, aveva previsto che il film Catene avrebbe guadagnato «una barca di soldi») e avrebbe presto ritrovato l’acume con i musicarelli. A Lombardo, in quel caso, rispose: «Dottò i film con le suore non fanno una lira, i film con la neve non fanno una lira, che volemo fà, le suore su la neve?».

Gli anni Sessanta
Dopo Il vedovo (1959), con l’ingresso negli anni Sessanta, grazie all’intesa cementata con gli sceneggiatori dell’epoca – Rodolfo Sonego, Age e Scarpelli, Ettore Scola e Ruggero Maccari (i film italiani erano spesso scritti a quattro mani, tra gli altri “coppisti” svettavano Benvenuti e De Bernardi con Pinelli e Flaiano) – Risi incontrò i suoi capolavori. Tra il 1961 e il 1964, inanellò Una vita difficile (1961), Il sorpasso (1962), I mostri (1963) e un episodio de I complessi (1964). L’essenza dei favolosi Sessanta. E poi guarda caso, eccoli là. Uno, due, tre e quattro. Il poker d’assi che nessun’altra generazione ha mai avuto. Sordi, Gassman, Tognazzi e Manfredi. Quattro pellicole che contengono tutto: storie, atmosfera, musica e attori di quegli anni. Sarebbero bastati solo questi film. Per la sua vita, per la sua carriera, per dipingere quel decennio. Per entrare nell’Olimpo del cinema italiano.

Se dietro il primo titolo c’era De Laurentiis, alle spalle de Il sorpasso c’era Mario Cecchi Gori, un ragioniere toscano, ex direttore di night club, che, prima di cominciare a produrre film con la Maxima Cinematografica, aveva fatto l’autista di Dino De Laurentiis.

In realtà dietro al film c’era la vita stessa di Dino Risi. Lo spunto di quella storia partì da una telefonata. Era il 1947: «Devo fare un salto a Varese, mi accompagni?». Dall’altra parte del telefono c’era Martello, l’avvocato produttore dei suoi primi cortometraggi. Partiti insieme da Milano, il salto si allungò da Varese a Lugano, «solo per comprare le sigarette». Fino a quando si trovarono in Liechtenstein, dove l’irrefrenabile Martello, spacciandosi per giornalista, riuscì a farsi invitare a corte finendo per cenare con il principe Francesco Giuseppe II e la sua famiglia. La memorabile giornata rimase scolpita nella testa di Risi per quindici anni, fino a quando nel 1962 la liberò. Non prima però di averla fusa con un altro episodio, più recente. Per compiere dei sopralluoghi prima delle riprese di A porte chiuse salì, a Roma, anche nella macchina di un altro produttore, Mario Cecchi Gori, e arrivò insieme a lui fino a Maratea. Pessimo guidatore, dedito ai sorpassi in curva, cultore della radio a tutto volume, esploratore indeciso di ristoranti, fornito – diceva – di una infallibile memoria topografica, il produttore toscano si rifiutava di consultare la carta. Arrivarono a notte fonda, non trovarono l’albergo e dormirono in macchina. Era l’altra parte che gli mancava, il ritratto di Bruno Cortona, il protagonista del film, ora era pronto.

Il sorpasso è quel decennio. Coglie tutto. C’è tutto. Due uomini, Bruno e Roberto, sulla strada. Il road movie italiano per eccellenza (sì certo ci sarebbe stato anche Marrakesh Express, ma a ciascuno il suo). E forse l’aggettivo che lo circoscrive geograficamente è riduttivo. Dennis Hopper disse che fu il modello al quale si ispirò per Easy Rider. Martin Scorsese lo reputò il primo vero road movie del cinema. E nessuno forse lo sottolinea mai, ma quando Wim Wenders fece Nel corso del tempo, terzo film della sua trilogia della strada (anche lì due uomini in viaggio), chiamò i suoi protagonisti Bruno e Robert.

In quei trecento chilometri percorsi a bordo di una Lancia grigia gran turismo B24 lungo la via Aurelia, dal centro di Roma alle spiagge della Versilia, si attirano e si respingono due vite destinate a contagiarsi. Quella di un cialtrone estroverso (Vittorio Gassman) e di uno studente malinconico (Jean-Louis Trintignant). Un infinito repertorio iconografico di situazioni, battute, luoghi e canzoni. L’albergo Midas, Marina di San Nicola, la trattoria al Porto Vecchio di Civitavecchia, i cipressi di Carducci, i bagni Ausonia di Castiglioncello. Sulle note di Riz Ortolani intervallate da “Quando Quando Quando”, “St. Tropez Twist”, “Guarda come dondolo”, “Pinne fucile ed occhiali” o “Vecchio frak” (quest’ultima innesca la battuta: «A me Modugno mi piace sempre, questo “Uomo in frac” me fa impazzi’, perché pare ‘na cosa de niente e invece c’è tutto: la solitudine, l’incomunicabilità, poi quell’altra cosa, quella che va di moda oggi… la… l’alienazione, come nei film di Antonioni. Hai visto “L’eclisse”? Io c’ho dormito, ‘na bella pennichella. Bel regista Antonioni, c’ha una Flaminia Zagato. Una volta sulla fettuccia di Terracina m’ha fatto allungà il collo». Un erogatore di stimoli contemporanei mai appassiti e mai imbalsamati (il «cane a sei zampe, amico fedele dell’omo a quattro rote!» riferito al logo dell’Agip o «I filobus» che «sono sono pieni di gente onesta»). Vivi ora come allora. Un angolo retto dalla struttura inossidabile, con un primo movimento verticale (Bruno sale a casa di Roberto per scendere insieme a lui) e un secondo irrefrenabile orizzontale (con il viaggio) fino al finale che lo spezza.

La crisi
Dopo I mostri, perfida parodia del costume di quei tempi, e l’episodio Una giornata decisiva de I complessi, quasi uno spin-off del personaggio del Roberto Mariani (Trintignant) de Il sorpasso, la sua vena seguì poi il destino dell’intero cinema italiano e – seppur con qualche colpo di reni (In nome del popolo italiano o Profumo di donna) – un po’ si spense. Lui non perse il tocco, ma i cantori della commedia all’italiana avevano dato e detto tutto quello che avevano dentro. La grande famiglia si era dispersa. Ponti e De Laurentiiis si erano separati. Roma era diventata una città più brutta, più sporca e più cattiva. Il Paese aveva conosciuto la crisi, gli italiani la depressione, la tv era diventata la loro droga. Il cinema tentò di sollevarsi con trame semplici e battute volgari. Era finita un’era.

Fu allora che Risi decise di estraniarsi dal mondo e di andare ad abitare in un piccolo residence ai Parioli, di fronte al giardino zoologico romano (oggi Bioparco), scelta che ha sempre difeso con convinzione: «Vivo come in albergo, senza pesare su nessuno. Qui, è vietato affittare a chi ha bambini o cani, una meraviglia». Nessun senso di provvisorietà, quindi. Gli era sempre piaciuto isolarsi (da piccolo voleva fare il guardiano del faro). Era venuto lì per starci una settimana, ci rimase per sempre. E fu lì che, quasi tre decenni dopo quel periodo aureo, andai a trovarlo.

Non ci eravamo mai parlati prima ma fu cortese. Sapevo che migliaia di esistenze prima di quel momento gli avevano già posto domande del genere, perciò mi sforzai di cercare nuove angolazioni. Non credo che ci riuscii ma lui fu un signore e non esibì alcun segnale di stanchezza. Parlò molto, con poche parole. Che riempirono di immagini le righe della sua vita, quelle riportate qui sopra. Ogni episodio era netto, asciutto, pulito e perfido. La famiglia (un nonno era stato con Garibaldi e l’altro segretario di Mazzini), la scuola, vissuta da ribelle («una volta portai una gallina in classe»), i magnifici mattatori, Sordi («grande ma chiuso»), Tognazzi («divertente e umano»), Manfredi («pignolo e noioso»), Gassman («brillante ma complesso»), i figli («più bravi di me»). E naturalmente quegli anni Sessanta. «Con il boom – disse – le automobili e le lambrette, si cominciò a respirare, a vestirsi, a mangiare, a crescere di statura».

Cercai di trafugare nei suoi toni, di rubare dai suoi sguardi, di spiare i gesti delle sue mani pur di provare ad asportare almeno un briciolo della sua essenza tra quei ritagli lontani di vita. Poi, lui, senza mezzi termini, disse una frase che non ho mai dimenticato: «Le guerre si dovrebbero fare solo perché dopo vengono i dopoguerra». Era una battuta da commedia all’italiana. L’unico accenno di nostalgica amarezza che percepii in lui. Il suo ricordo in quel momento non poteva essere disgiunto da un’età irrimediabilmente perduta. La sua. Quella di un giovane, non di un’epoca. Anche perché poi, di quella ventata di benessere che illuse un Paese intero, Risi avrebbe capito immediatamente la faccia nascosta, quella barbarica. E l’avrebbe messa in scena. Senza giudicarla. Usò il suo cinismo come passe-partout per raccontare il presente. E come uno storico della vita pubblica utilizzò ogni cosa: i balli, le trattorie, la spiaggia, i bar, le canzoni, le balere, il calcio, le chiacchiere, le automobili.

Ripensando a quanto mi raccontò, la sua stessa vita fu l’emblema di quegli anni. E, se esistesse un altro Dino Risi, quella sua esistenza ordinaria in circostanze straordinarie potrebbe diventare la commedia per eccellenza. La storia di un “fallito riuscito”, come si definiva lui stesso, che tentò inutilmente prima di uccidersi, poi di partire per la guerra, infine di fare il medico e che non avrebbe forse combinato nulla se un incontro casuale non gli avesse cambiato il corso della vita. Facendolo trovare pochi giorni dopo sdraiato su un sofà con la diva del decennio al suo fianco e il regista più titolato dell’epoca ai suoi piedi. Roso da una inspiegabile invidia per quel giovane dal futuro incerto che allora era solo uno che si chiamava Dino Risi.

Dino Risi (©LaPresse Archivio storico)

Piero Trellini

Scrive per la Repubblica, La Stampa, Il Sole 24 Ore e Domani. Ha lavorato per Il Messaggero, il Manifesto, Sky e altri. Collabora con Nuovi Argomenti e Art e Dossier. Scrive serie televisive. Ha pubblicato “La partita” (Mondadori), “Danteide” (Bompiani), “L’Affaire” (Bompiani) e “La partita. Le immagini di Italia-Brasile” (Mondadori).
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