Circolare
Una newsletter di
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Michele Serra
Martedì 21 gennaio 2025

Circolare

«Comunque l’intoppo (quello che impedisce a tutto quanto di circolare, mutare, rinnovarsi) siamo noi. È la nostra ansia di accumulo, la nostra incapacità di sciogliere quegli enormi groppi che poi, a tradimento, ci prendono alle spalle, incombono, ci opprimono»

Ogni tanto mi chiedo se il lieto fervore con il quale vado a portare i rifiuti di casa nella piccola stazione di raccolta, giù in paese (ben suddivisa in vetro, carta, plastica, organico, indifferenziato, pile esauste) faccia parte della vasta gamma delle perversioni sessuali. Voglio dire: mi dà proprio soddisfazione farlo, nonostante il sex appeal dei rifiuti e dei cassonetti non sia poi così evidente, e anzi…

È più probabile che il mio stato d’animo di felice frequentatore di cassonetti dipenda, oltre che dal senso civico, che non fa mai male, da una sensazione di vero e proprio sollievo, come quando lo scarico del lavandino si sgorga, il fosso ostruito torna pervio, il disordine di una stanza, o di un armadio, trova finalmente un nuovo assetto più funzionale, più leggero, più riposante. Le signore gentilissime alle quali consegno, alla Caritas, vestiti e scarpe usate, e le mille cose di casa che non servono più, mi dicono sempre, sorridendo, che tutto torna utile. “Non si butta via niente, si fanno solo circolare le cose invece di farle marcire in una cantina o in uno sgabuzzino”. La differenza, a pensarci bene, è esattamente quella che separa la stagnazione dal movimento, l’aria viziata dall’aria che circola. Nulla si crea, nulla si distrugge, se non – ma è un caso estremo – quell’orrendo paio di pantofole bucate che agonizzavano da anni in un comodino dismesso. La pantofola è già un oggetto malinconico da nuovo; da vecchio, è un’accusa spietata alla mediocrità umana. Se esiste una petizione mondiale per l’abolizione delle pantofole, la firmo – lo so, ci sono le eccezioni, per esempio quelle pantofole friulane che costano come un cappotto.

Comunque l’intoppo (quello che impedisce a tutto quanto di circolare, mutare, rinnovarsi) siamo noi. È la nostra ansia di accumulo, la nostra incapacità di sciogliere quegli enormi groppi che poi, a tradimento, ci prendono alle spalle, incombono, ci opprimono. Oddio, devo ancora svuotare quei bauli, quella stanza ingombra, devo mettere in ordine le fotografie, devo liberarmi di quelle carabattole, devo, devo, devo, e rimando sempre.

Non per caso diventano best-seller, o sono comunque molto letti, quei libri che si occupano di “mettere in ordine”. Suggeriscono l’idea che sia una disciplina, prima di tutto una disciplina mentale, quella che ci aiuta a non soccombere agli oggetti, a rimanerne i padroni e non gli schiavi. Il consumismo, come è evidente, ha terribilmente ingigantito il problema, è un tipico caso di progressione geometrica, una moltiplicazione dei bisogni che si fonda sull’impossibilità di soddisfarli, perché se uno ha venti maglioni, vuoi che non sia molto meglio averne quaranta?…
Essendo una patologia ormai consolidata e matura (ormai tre o quattro generazioni di umani occidentali possono definirsi consumiste) il corpo sociale ha elaborato, pian piano, anche i suoi anticorpi. L’idea (teoria e prassi) che i rifiuti si possano riciclare, la plastica tornare plastica, il vetro vetro, la carta carta, l’organico humus o carburante, e la Caritas sappia a chi serve il montgomery che languiva nel tuo armadio da anni, non è solo virtuosa, è anche terapeutica, ci lascia intendere che forse esiste un metabolismo dell’avere, e che non tutto è destinato a intasarsi nell’ansia tirchia del possesso. Che forse non moriremo soffocati.

Poi si sa, ognuno è fatto a modo suo, ho due freezer grandi come silos nei quali è stipato cibo per un battaglione di alpini, e dubito che un battaglione di alpini voglia, di qui a breve, cenare in casa mia. Devo essere stato, in vite precedenti, il classico morto di fame, e questo mi rende sensibilissimo alle dispense ricolme, alle cantine ben fornite, a un rigoglio di vassoi ricolmi che si può reperire solo in certe nature morte seicentesche. Ma a parte i deficit individuali, penso che più o meno tutti stiamo scoprendo, o scopriremo presto, che esiste una vera e propria igiene dei consumi. L’indigestione, il blocco, è patologico. La digestione, compresa l’evacuazione, è salute, è vita che si rinnova. Tutto si rimette in circolo se scopriamo la maniera di farlo.
Ricordo ancora, da ragazzino, l’orrido tuffo dell’immondizia (tutto in uno solo sacco, ovviamente) giù nel cunicolo condominiale. Con un tonfo fradicio finiva nel mucchio nauseabondo giù al pianterreno, per la felicità di topi e blatte.
Beh, qualche passo avanti lo abbiamo fatto. Come si dice, o si diceva, dello studente svogliato: se si applica, ce la può fare.

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Moltissime le mail a proposito dei prezzi delle case a Milano (vedi lo scorso Ok Boomer!). Le analisi del fenomeno sono varie e anche difformi, c’è chi tira in ballo la scomparsa di piani di edilizia agevolata degni di questo nome (in Spagna il governo Sanchez ne ha appena varato uno), chi al contrario imputa la penuria di case all’eccesso di leggi e regole che tarpano le ali al mercato. Ma quella che impressiona, ben al di là della discussione sulle cause del fenomeno, è la lunga catena delle testimonianze personali, soprattutto di persone giovani. Lettere non ottimiste e quasi rassegnate: la casa a Milano (e a Roma, a Bologna) per molte e molti, anche con un lavoro stabile, non è nemmeno un miraggio, è una rinuncia già archiviata, è una cicatrice. Qualcosa che non è più alla portata: e per esteso, quella rinuncia ne contiene altre. Ho scelto, tra le tante, la lettera di Sofia.

“Del fatto che molto è inaccessibile alle nostre generazioni (giovani e semigiovani) si analizza quasi sempre l’aspetto economico, si citano dati e numeri, costi e stipendi, ma l’impatto psicologico raramente viene preso in considerazione. L’effetto sulla consapevolezza di noi stessi c’è, e credo che sia determinante in molte scelte di vita. Un esempio su tutti: la scelta di non avere figli secondo me è molto legata al fatto che le condizioni esterne ci facciano sentire adolescenti oltre il limite massimo, senza neppure volerlo, tra l’altro. Non poter avere una casa vera, un lavoro vero con stipendio e mansioni all’altezza, ci porta a pensare che non saremmo in grado di seguirlo, un bambino, di essere responsabili di una persona tutta intera. Se hai appena smesso di essere stagista sottopagata è difficile pensare di avere le capacità di essere genitore di qualcuno. A trent’anni, io e molti amici ci sentiamo troppo giovani per pensare di avere dei figli, ed è anche vagamente assurdo, a pensarci”.
“Quando ci si riesce a stabilizzare, molti di noi sentono di potersi finalmente godere l’autonomia, e, soprattutto per le ragazze, non è possibile trovare cool una maternità che si basa ancora sull’equiparazione dei concetti ‘madre’ e ‘sacrificio’. Né abbiamo voglia di cominciare subito a badare a qualcun altro; abbiamo appena iniziato a poter badare a noi stesse/i. La scelta di non avere figli o di averli è molto più complessa di così, ma le condizioni psicologiche hanno un ruolo tanto quanto le difficoltà economiche in sé, solo che non se ne parla spesso. In questa fase della mia vita non voglio figli e sono felice per me stessa, qualsiasi cosa pensino di me gli anziani del mio paese, il popolo della famiglia e Giorgia Meloni”.
Sofia

In rappresentanza dei non più giovani, e per dire quanto il problema non sia solo “generazionale”, la mail di Marco.

“Sono sbarcato dalla Romagna a Milano alla fine degli anni Ottanta, ho passato la maggior parte della mia vita qui. Non è Parigi, non è Londra ma pure Milano è diventata a suo modo bella, le sono grato per avermi accolto e avermi dato opportunità precluse altrove, una città dove tutto sommato si vive bene (la gente non solo non si spara più per le strade: le vive). Col tempo è diventata orgogliosamente la mia città. Ora non tornerei più indietro se non fosse che probabilmente, in un futuro non troppo lontano, mio malgrado vi sarò costretto.
Non solo i giovani, gli studenti e le giovani coppie oggi si trovano di fronte all’impossibilità anche solo di affittarla una casa (figurarsi a comprarla), ma è in difficoltà anche chi come me, di mezza età, per le vicissitudini della vita si ritrova senza più una casa di proprietà a vivere da divorziato in un appartamento di 50 mq con un affitto che ogni volta che lo comunico ai miei amici romagnoli strabuzzano gli occhi. Solo negli ultimi cinque anni gli affitti sono lievitati del 40% (!) mentre le remunerazioni, come sappiamo, sono ferme agli anni Novanta.
Per vivere a Milano oggi devi avere un certo tipo di reddito, e comunque sempre con la sensazione di buttarne via oltremisura. Non resta che confidare nella politica, tardiva come sempre e con la lungimiranza di un pesce rosso”.
Marco

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Vedo sul Post un video di Yang Li, una stand up comedian cinese (chissà come si dice stand up comedian in cinese) di grande successo grazie alle sue battute contro il maschilismo nazionale (chissà come si dice, e se si dice, patriarcato in cinese). Non capisco mezza parola di cinese e suppongo di condividere questo deficit con la quasi totalità dei miei lettori; ma rimango incantato per qualche minuto dal monologo. Catturato. La ragione dell’incanto è più o meno questa: il ritmo, la cadenza, direi il “suono” del breve spettacolo, anche se il significato mi sfugge completamente, sono subito riconoscibili come comici, e più precisamente satirici. Inconfondibilmente, come se ci fosse una specie di tecnica universale, che funziona ovunque.

Grosso modo, la tecnica è questa: l’oratore si presenta “serio”, non fa smorfie, non ammicca, e comincia un discorso ugualmente serio. Vige un equivoco consenziente, tra lui e il pubblico: il gioco è fingere che il mondo sia un luogo normale, e che se ne stia parlando in modo del tutto convenzionale. Poi, trascorso il tempo di quelle quattro o cinque frasi “serie”, arriva la battuta, spesso a tradimento. La battuta è un processo di autodistruzione del discorso in atto, un crollo di senso, un deragliamento logico, come se il discorso fosse una persona che inciampa (niente fa ridere come le persone che inciampano). E poi daccapo, si torna alla finzione della serietà, e di nuovo una battuta interrompe a tradimento la finzione e si ride, tutti insieme, di quanto fragile sia la trama della nostra normalità, e quanto liberatorio sia accorgerci che facciamo ridere.

Reinhold Messner, tanti anni fa, a chi gli chiedeva della grande diversità culturale dei popoli (tanti) che aveva incontrato viaggiando per il mondo, rispose che effettivamente le società umane sono molto diverse le une dalle altre. “Ma si ride e si piange, tutti quanti, per le stesse cose”.
Mi viene in mente, rimanendo in argomento, che da un po’ trascuro di rileggere le mie vecchie satire e di propinarvene qualcuna. Mi riprometto di ricominciare a farlo. Me ne ha fatto tornare la voglia vedere una giovane cinese che fa ridere i cinesi.

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Dai cinesi ai ticinesi. L’unica Zanzara di questa settimana è anomala e antica (non è un titolo di giornale) ma io non la conoscevo e mi è sembrata irresistibile. Me la manda Marilli da Lugano.

Sembra un lunedì come tutti gli altri, ma secondo Ezio Mauro oggi è “il big bang del mondo nuovo”. Si insedia Trump con il suo manipolo di amici ricchi e la sua marea di elettori poveri, e temo che Ezio Mauro abbia ragione: cambia, e molto, e forse irreversibilmente, la storia della democrazia occidentale. Ne ho parlato ieri sera da Fazio: niente mi sembra più vecchio di questo mondo nuovo, vecchio come la devozione al Capo, come l’ovazione del popolo di fronte al suo seduttore. Sedotto e abbandonato potrebbe essere un buon titolo, per una serie dedicata ai rapporti tra popolo e potenti.
Eppure è un lunedì uguale a tanti altri, ed è così che dobbiamo cercare di viverlo, la vita quotidiana – per ora – non è qualcosa che possano levarci dalle mani, l’umore è il nostro umore, i passi i nostri passi, gli amici i nostri amici. Pare che si continuasse a vivere, perfino felici, anche in tempi di guerra, figuriamoci se basta uno che abita a Mar-a-Lago – tale quale il castello del Boss delle Cerimonie – a guastarci le giornate. Pioviggina e continua a fare freddo. Dicono che, entro mercoledì, qui al Nord butta neve. Viene voglia di bolliti, di brodo fumante, di patate lesse. Se vi viene la malinconia, cucinate, e vedrete che vi passa. In alto i cuori, a seguire il tragitto dei camini fumiganti.