Lo abbiamo perso

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).

La divertente intervista di Mario Monti alle Invasioni Barbariche ha confermato l’ambivalente impressione sull’uomo. Avevo già scritto qui dai primi giorni del suo governo sulla mia curiosità e ammirazione per la sua anomalia nel panorama politico e umano italiano: all’improvviso era arrivato uno che non concedeva niente, che diceva quello che pensava o lo faceva capire con ironie e sarcasmi di rara acutezza, che trattava da idioti quelli che riteneva idioti e il cui messaggio era “io sono qui per fare delle cose che credo giuste, vi piaccia o no: e me ne frega pochissimo del vostro giudizio perché io sono di un altro pianeta”. Tutto questo suonerà sgradevole e presuntuoso – in parte lo era, anche per via di un autocompiacimento diventato rapidamente riconoscibile – ma gli dava anche il fascino del bullo, quello dell’uomo forte e rassicurante, quello del “tecnico” che “fa le cose” e risolve problemi, e la simpatia del fenomeno: non si era mai visto uno che invece di vendere fuffa ai giornali chiedeva ai giornali “perché pubblicate tutta questa fuffa” (lui lo diceva con un carico da dieci di falso garbo), e che ai partiti che lo sostenevano concedeva pochissimo e anche insultandoli un po’. Insomma, un uomo che non rispondeva a nessuno se non a se stesso, e capace di analisi e formulazioni del tutto originali, toste e spiritose: disumano, nel senso buono del termine. Badate che non c’entra niente la condivisione o meno delle sue politiche: ma di sicuro aveva costruito un capitale di carisma personale su cui non aveva nessuna concorrenza.

Poi, un giorno di dicembre, dalla sera alla mattina – e nel mezzo c’era stata una precipitosa candidatura a guidare un partito, o una specie – quell’uomo lì è sparito e ha ceduto il passo al più banale e prevedibile dei candidati demagoghi: dedicato immediatamente a una politica delle alleanze (con che alleati, poi) e dei piccoli traffici di candidature e spazi, a una comunicazione di annunci stereotipati e di promesse elettorali, addirittura alla promessa di abbassare le tasse che fino a una settimana prima erano lucidamente presentate come l’ineluttabile e giusto simbolo del rigore e della partecipazione dei cittadini. Radiosi futuri al posto delle lacrime e sangue di un attimo prima, slogan di rituale banalità retorica dove eravamo abituati a sarcasmi e battute che gli interlocutori avrebbero afferrato la mattina dopo, accuse a “chi mi ha preceduto” per i guai del paese. Dall’uomo delle agognate “scelte impopolari” alla ricerca di popolarità a tempo pieno. Le sue rarefatte e scelte presenze televisive – ognuna un evento – sono diventate un affollamento in tutti palinsesti a dire le cose di tutti, con contorno di apparizioni stradali culminate nelle foto con i passanti e il bacio dei neonati: a cui associa un’espressione e dei gesti di totale goffaggine, a testimonianza della sua inadeguatezza in queste forzate esibizioni. Perché è disumano, nel senso così e così del termine. Quella gente lì, non gli interessa, e si vede (da PresdelCons non è mai andato “tra la gente” nemmeno quando sarebbe stato saggio e utile, nemmeno in nessuna emergenza).
Si è inventato di essere uno qualunque, ma senza esserlo: a differenza di Berlusconi. Ecco, immaginate Berlusconi che dall’oggi al domani prova a essere uno schivo e distinto signore di parche e ficcanti battute, e tratta tutti dall’alto in basso come se avesse altro da fare.
Suonerebbe come minimo artificioso e falso, come lo sembra Monti in questa sua nuova incarnazione: e lo spot diffuso ieri conferma totalmente questa sua rigida artificiosità.

Ma alle Invasioni barbariche mercoledì Monti è stato sia Jekyll che Hyde: un fulmine di senso dell’umorismo e destrezza – molto simpatico, molto brillante – in tutte le questioni leggere o politicamente non impegnative, spiritoso nelle gag a due, senza un attimo di incertezza ogni volta che era al centro delle domande, capace di secondi e terzi livelli di allusioni e sarcasmi (a volte sembra pensarsi l’interlocutore delle sue battute). Ma poi impacciato, freddo, balbuziente, su una serie di questioni di quotidiana umanità e civiltà: sugli omosessuali (si sarebbe detto che non sapesse cosa fossero, tanto vagava con gli occhi e le parole in cerca di un aiuto, una via di fuga, non riuscendo infine a trattenere che le loro istanze non sono una priorità), sui detenuti (che non votano o quasi non votano, e quindi nessuno lo aveva preparato neanche a una forzata finzione) ai quali non ha concesso la speranza nemmeno di essere la penultima delle priorità, sfuggendo a ogni più insignificante richiesta di attenzione (con lunghi imbarazzanti momenti di silenzio ed esitazione): “sarei contrario a un’amnistia se questa fosse letta come la soluzione al problema delle carceri…”. Per entrambi, omosessuali e detenuti, Monti ha fatto capire (dei primi lo ha proprio detto) che non sono minimamente nei suoi pensieri (“avevamo preparato un progetto giustizia, ma poi nel rush…”). I troppo umani, non sono nei suoi pensieri.

E che si sia dimostrato invece incredibilmente a suo agio e affettuoso col cane non ha fatto che confermare questa impressione: i disumani amano sempre molto gli animali.


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