Del nostro peggio

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).

Il “segreto” del successo di Murdoch, per Bernstein, è uno solo: l’abbassamento vertiginoso della qualità giornalistica, fino a sostituire alla “faticosa ricerca della verità” quella parodia della realtà che è il gossip.
Nel nostro piccolo, anche in Italia abbiamo sperimentato questa progressiva sostituzione della realtà con un suo scadente surrogato, edulcorato e sciocco. Ma il problema è mondiale: la società di massa ha creato un nesso forte e chiaro tra la cattiva qualità e il successo commerciale. Accade per i cibi, per il giornalismo, per la politica, per il turismo, per tutto. Non so quanto sia fondata l’idea (classista) che la qualità sia destinata solo a un pubblico di nicchia, e il “popolo” sia per definizione, direi per destino, di bocca buona. Ma so che, nell’attesa di capire quanto solido e duraturo sia l’impero della mediocrità, l’autostima di ciascuno è la sola bussola che conti, anche per i giornalisti. Forse non si può scegliere se diventare Bernstein o occuparsi delle gravidanze delle attrici. Ma si può scegliere, almeno, di provarci.

La rubrica sopracitata di Michele Serra di ieri conteneva almeno tre elementi su cui sarei stato tentato di scrivere un post e farci riflessioni più approfondite. Di uno, quello dell’importanza dell’autostima come motivazione e definizione delle cose che facciamo, avevamo parlato con Serra alla presentazione di “Un grande paese” a Torino: e ne ho scritto nel libro meglio di quanto potrei rifare qui. Di un altro – il saper e voler distinguere, da giornalisti, tra “diventare Bernstein o occuparsi delle gravidanze delle attrici” – tendo a parlare da tempo con una certa babbiona insistenza qui e in giro, e qualche giorno fa mi sono permesso di parlarne anche alla riunione di redazione di un autorevole quotidiano, approfittando della pazienza dei suoi giornalisti.

C’è una terza cosa su cui ho pensieri più giovani e che aspettavano di essere messi insieme da qualche giorno, e che Serra ha messo sul piatto con efficacia con la frase “la società di massa ha creato un nesso forte e chiaro tra la cattiva qualità e il successo commerciale”. I miei pensieri sono che le grandi trasformazioni nelle industrie di contenuti di questi anni – giornali, libri, musica, cinema – che sono stati ripetutamente attributi alle rivoluzioni tecnologiche abbiano invece a che fare con uno sviluppo più tradizionale, che da una parte non è niente di nuovo e dall’altra sta raggiungendo livelli rivoluzionari, anche col contributo di forze delle rivoluzioni tecnologiche: quello dell’abbandono da parte degli intermediari – chi vende i giornali, i libri, la musica, il cinema, e le loro strutture – di ogni residuo di valutazione di qualità e di ruolo pedagogico in favore di un’adesione sempre più totale al mero successo commerciale del prodotto.

Suona una gran banalità, lo so. Ma stanno davvero tutte lì, le crisi dei mercati editoriali: tu tiri delle linee a un cui estremo c’è quello che ti piace e all’altro quello che piace agli altri, a un cui estremo c’è la qualità e all’altro la quantità, a un cui estremo c’è quello che ritieni possa migliorare la cultura e la democrazia della tua comunità e all’altro c’è quello che ritieni possa farti guadagnare di più. E nel corso della tua attività scegli di volta in volta dove posizionarti su quella linea. Se la tua attività è prioritariamente commerciale (tipo che produci degli pneumatici) starai più vicino ai secondi estremi ma allontanandotene in misure diverse a seconda di tue etiche o ambizioni extramonetarie (usare materiali sicuri, inquinare meno nella produzione, premiare i tuoi dipendenti, contribuire all’innovazione e alla crescita scientifica) che a loro volta possono anch’esse avere dei ritorni commerciali.
Se la tua attività è prioritariamente culturale, pedagogica, innovativa, starai più vicino ai primi estremi spostandotene quanto basta per renderla remunerativa abbastanza da potersi mantenere, crescere, restare fedele ai suoi obiettivi. Farai buoni e utili giornali cercando di non farli solo per te e di raggiungere un numero crescente di persone, farai belle e stimolanti opere di ingegno con l’intenzione di farle conoscere e apprezzare, eccetera.
Naturalmente – anticipo le obiezioni degli schematici – questo quadro è ancora più fluido di così, e prevede molte altre tipologie e variazioni: dai giornali e i libri e i film e i dischi che si autodefiniscono unicamente prodotti commerciali a fini di profitto, alle opere d’arte che non vogliono contaminare le proprie ispirazioni con nessuna ricerca di consenso. E altre. (È interessante anche notare come la stessa attività politica ricada in queste definizioni, e come si sia spostata sempre più dall’estremo del bene comune a costo di essere impopolare a quello della demagogia e della vendita tout court del prodotto uomo politico a prescindere dal bene comune).

Il posizionamento di quello che si fa sulla linea dipende da molti fattori e contesti e può cambiare nel tempo in conseguenza di molte variabili. Ma se un prodotto che ha soprattutto finalità commerciali si allontana troppo da queste, rischia di essere un fallimento; e lo stesso avviene a un prodotto che abbia piuttosto priorità di qualità culturale o informativa. Ricordiamoci sempre che la circolazione delle informazioni e della cultura è un elemento centrale del funzionamento della democrazia, e che non è opinabile la qualità in questo senso di un’opera editoriale: se aiuta a capire e a compiere scelte informate produce un miglior funzionamento delle comunità democratiche. Alcuni giornali e prodotti culturali si attribuiscono di più questa funzione, altri se la attribuiscono meno, ma se la attribuiscono in misura diversa anche prodotti e attività assai differenti, e persino gli pneumatici. Non è una divisione binaria netta tra ciò che migliora le democrazie e ciò che è superfluo o addirittura nocivo: è una riga con molte posizioni.

Naturalmente, esistono però dei ruoli e delle responsabilità a cui abbiamo dato un senso. Gli pneumatici permettono il trasporto e i viaggi, aiutano gli sviluppi industriali ed economici, facilitano le comunicazioni, e la loro funzione positiva e progressista si espleta in modo soddisfacente nel girare efficacemente. Alcuni giornali e altri luoghi dell’informazione e della divulgazione si attribuiscono funzioni e responsabilità più dirette: avvicinarsi alla verità, aiutare la comprensione del mondo, essere organo di controllo e moderazione dei poteri e dei governi, dare strumenti per fare scelte proficue (ricordiamoci che i giornali sono un raro prodotto che non si sostenta con la vendita di se stesso). Altri prodotti editoriali meno legati all’attualità offrono contributi e ricchi e stimolanti alla produzione delle idee, alla visione di prospettive di innovazione e progresso, alla creazione di cultura che sia utile alla crescita delle società.

L’ho fatta un po’ lunga e professorale, ma era per argomentare una sintesi che non sembrasse troppo sbrigativa e che è che negli ultimi decenni con sempre maggiori accelerazioni (le corruzioni da parte del mercato sono sempre esistite) i prodotti culturali e di informazione hanno perso l’equilibrio tra le loro priorità dichiarate e le loro necessità commerciali: da una parte sbilanciandosi verso le seconde e dall’altra interpretandole con una sventata e pigra riflessione demagogica: “diamo al pubblico ciò che vuole”. Le conseguenze sono state rispettivamente due.  Che i produttori di queste cose, invece di sviluppare strutture e progetti (distribuzione, pubblicità) che permettessero di vendere meglio i loro buoni prodotti hanno sviluppato prodotti che si vendessero meglio sulle efficaci strutture: snaturandone le ambizioni originarie. E che dando al pubblico ciò che ritengono voglia hanno a loro volta contributo a definire e consolidare quel gusto, quella domanda, a nuovo danno delle loro ambizioni costitutive.

Oggi questi mercati non sono in “crisi” per l’arrivo di internet: ne è dimostrazione il dibattito sull’impoverimento dell’offerta qualitativa dei libri, un campo in cui internet non ha ancora avuto il ruolo devastante che le si attribuisce con la musica, i giornali o il cinema. Il problema di questi settori è che sono vittime dell’abbassamento della qualità, delle ambizioni, della responsabilità, per ragioni economiche: quando il loro ruolo non è più soddisfatto, quando la qualità media si abbassa, quando i prodotti storicamente più autorevoli finiscono per somigliare a quelli che lo sono meno, gli utenti non ne riconoscono più la necessità. Dire oggi che la pirateria musicale rischia di diminuire drammaticamente l’offerta è un argomento debolissimo: l’offerta di nuova musica è enormemente ridondante e la salvaguardia di ampie quote di artisti preoccupa solo gli artisti stessi. Lo stesso dicasi per molti libri o contenuti giornalistici: le nostre società non perderebbero niente da una oculata riduzione del 50% dell’offerta esistente.

Il problema è che la riduzione indotta dalla riduzione dei profitti non è oculata: è dettata dal mercato, dalle scelte di quel pubblico a cui sono stati consegnati negli anni contenuti mediocri e superflui con l’argomento che erano quelli che voleva. Abbiamo educato – e stiamo educando – lettori, ascoltatori, utenti, spettatori, pubblico, noi stessi, a una “progressiva sostituzione della realtà con un suo scadente surrogato, edulcorato e sciocco”, per dirla con Serra. Abbiamo demolito la domanda per la qualità, per gli standard alti, per la correttezza, per l’eccellenza, e così abbiamo annullato il ruolo di chi una volta aveva le competenze per produrre e selezionare questi tratti sostituendolo con quello di semplici venditori. Bravi venditori, magari: ma qui è arrivata internet è ha spappolato i privilegi delle potenti ed esperte catene di vendita e comunicazione, accorciando enormemente il gap tra queste e chiunque di noi voglia trafficare con gli stessi prodotti, pirateria o no. Se i numeri più grossi nei siti dei quotidiani italiani li fanno le raccolte di video scemi che posso trovare da solo in altri mille posti e che altri mille siti mi possono offrire, dove è più il valore aggiunto di quei siti? Se le cose eccellenti che alcuni giornali sono tuttora in grado di fare non sono più riconosciute come importanti dai lettori, a cosa si riduce il loro vantaggio? Al brand, ancora per poco: poi i canali di circolazione dei contenuti già oggi principali – Google e Facebook – rimpiazzeranno completamente il traffico diretto sul sito e sul brand, e se non avrai cose che sai fare solo tu e un’identità fortissima sarai spazzato via.

C’è un risultato in quest’analisi? Non lo so: può darsi che l’unico risultato sia individuare me, Michele Serra e alcuni altri di noi come dei vecchi babbioni nei cui pensieri convive un rammarico intollerabile con un sereno disincanto e un tentativo di governare quanto possibile un cambiamento. Può darsi che questo percorso sia di una forza tale da essere ingovernabile, anche se in Italia appare particolarmente accelerato e originale, tanto da lasciar sperare in qualche moderazione. Nel lavoro sovversivo che ho in mente io e che è una delle cose che stanno alla base di “Un grande paese”, c’è la possibilità che le élite, gli intermediari, i titolari delle scelte – o una parte rilevante di essi – decidano di correggere questa deriva e trovare un equilibrio più dignitoso ed efficace, che salvi loro e noi tutti: prima di farci diventare tutti News of the World, o venditori di pneumatici mediocri.

Ma si può scegliere, almeno, di provarci.


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