Volete Gesù o Barabba?

Il primo referendum della storia fu indetto da Ponzio Pilato, e si è visto come è andata a finire. Votarono Barabba.

Non ci sono garanzie che le decisioni collettive siano più giuste delle scelte dei singoli. Ma la democrazia è un sistema che si basa su un atto di fiducia nel genere umano, sulla scommessa che ognuno, secondo le sue possibilità e mediamente con buone intenzioni, si sforzerà di scegliere la soluzione migliore e di selezionare al governo i più adatti. Quello che sta succedendo oggi è che un sacco di segnali – referendum britannico, ascesa di Trump, barriere di filo spinato (oggi in Europa ci sono barriere per 470 km, quattro volte i 106 km del Muro di Berlino), nazionalismi e razzismi vari – indicano che questa fiducia è sempre più debole.

Il voto britannico fa emergere in modo sempre più chiaro due nuove ideologie ugualmente regressive, fondate su idee politiche del Novecento o ancora più antiche. Da una parte c’è chi interpreta la democrazia in senso plebiscitario: uno vale uno, e chiunque ha diritto di esprimersi su tutto, anche e soprattutto se non ne sa niente. È un’idea vecchia come l’Occidente – volete Gesù o Barabba?, appunto – appena riverniciata dal mito di Internet come strumento magico della democrazia diretta. Ed è un’idea pericolosa perché la democrazia funziona solo se molti delegano a pochi – che si spera più attrezzati – le decisioni da prendere. Quando avviene il contrario – cioè quando sono i pochi a delegare ai molti le scelte difficili, come hanno fatto David Cameron e Ponzio Pilato – la democrazia fallisce perché dimostra di essere inadeguata a decidere. Il ricorso al plebiscito permanente è pericoloso anche perché offre ai pochi eletti una via di fuga rispetto alla loro funzione. Alla base di questa ideologia – che in Italia è portata avanti dal Movimento 5 stelle, ma non solo – c’è un’interpretazione ingenua, rozza e totalitaria dell’ideale di uguaglianza della Rivoluzione francese, che nega e abolisce le differenze tra gli uomini, invece di valorizzarle.

Per affermare questa visione plebiscitaria del mondo è necessario squalificare la competenza altrui, negare l’autorità degli esperti, raccontando che sono tutti incompetenti, bugiardi e corrotti – da cui il dilagare del complottismo. In questo modo scompare la verità, i fatti non esistono più: se ti convinci che quello che sai è falso e quello che non sai è vero, finirai per credere alle cose più facili e comode, perché gli esperti mentono, manipolati dal potere. Per celebrare la vittoria del Leave, da lui auspicata, il ministro conservatore britannico Michael Gove ha detto: «Il popolo britannico è stufo di esperti». Anche in questo caso, niente di nuovo. «Quando sento parlare di cultura metto mano alla pistola», diceva quello. Per governare la Russia basterebbe la cuoca di Lenin, diceva quell’altro. Di un altro più antico si racconta che nominò senatore il proprio cavallo.

Sull’altro fronte emerge in modo sempre più chiaro una posizione elitaria, il rimpianto della democrazia degli ottimati, che si potrebbe definire ateniese se non apparisse come un complimento (un sistema in cui solo i maschi ricchi possono prendere parte alla vita pubblica può essere visto come un inizio, non come un fine). I nobili e i bene-educati, oggi, sono i competenti, i bene-informati e i meritevoli: insomma, le élite culturali. È un’idea altrettanto regressiva perché non indica una proposta per il futuro ma si rifà a uno stadio più primitivo di democrazia, negandone il fondamento stesso, cioè l’idea che gli uomini abbiano uguali diritti, anche di parola e opinione.

Qualcuno propone di fare votare solo chi superi un test di cittadinanza (una cosa di cui parlavo già quindici anni fa in pizzeria, ma che non mi sarei mai sognato di scrivere), molti reagiscono all’ignoranza dilagante o esibita con orgoglio difendendo le classi dirigenti in modo acritico, sorvolando sulle loro responsabilità. Non bisogna dimenticare, per esempio, che a disinformare con metodo – come hanno fatto i tabloid inglesi su Brexit – è la stessa classe dirigente a cui, invece, si pretenderebbe di delegare in esclusiva il diritto di opinione e scelta. La cattiva informazione è sempre, anche, una responsabilità precisa di chi ha la responsabilità di educare e informare. Sotto la difesa della cultura, del merito e della competenza – che ovviamente ha molti buoni argomenti – riecheggia la paura dei patrizi romani per i barbari, il terrore dei nobili francesi per i sanculotti e l’orrore dello zar per gli stivali sporchi di fango dei bolscevichi sui pavimenti intarsiati del Palazzo di Inverno. Sono reazioni legittime, intrinsecamente umane, ma anche tecnicamente reazionarie, e in quanto tali storicamente perdenti perché contrappongono al presente un passato idealizzato invece di cercare una soluzione per il futuro.

Lo scontro tra elitarismo e populismo è tra competenza e ignoranza. Ma questi concetti sono usati da entrambe le parti come feticci ideologici, per rinsaldarsi nelle proprie posizioni e darsi una spiegazione di ciò che è complesso, invece che per provare a capire ciò che sta succedendo. La saggezza delle folle (volete Gesù o Barabba?) è un mito pericoloso e deresponsabilizzante. Le folle sono inclini a linciare, la democrazia serve a impedirlo. Ma la competenza dice poco sull’efficacia o sulla bontà della politica: anche Aldolf Eichmann, che organizzò i treni piombati di Hitler, era competente, un tecnico, si direbbe oggi. Siamo sicuri di sapere di che cosa parliamo quando parliamo di competenza? Siamo davvero sicuri che gli esperti siano sempre così esperti, e che non capiti anche a loro, qualche volta, di sbagliare, per esempio i calcoli sulle pensioni? Siamo davvero sicuri che il processo di selezione delle classi dirigenti selezioni davvero i migliori e i più saggi? È davvero certo che gli ignoranti siano ignoranti su tutto? Che non siano in grado di giudicare neppure se siano contenti o infelici?

I referendum sono la versione educata e democratica dell’acclamazione e del plebiscito. Molti mettono in dubbio che siano utili, soprattutto quando riguardano questioni complesse su cui chiunque, anche i meno ignoranti, faticano a informarsi in modo adeguato. Secondo me giustamente. La politica – i politici almeno in teoria dovrebbero essere competenti a prendere decisioni complesse – non dovrebbero chiamare tutti a esprimersi con un Sì o No su questioni tecniche e complicate come l’uscita dall’Europa, le famose trivelle e perfino – temo – le modifiche della Costituzione. Ma allo stesso modo è sbagliato che un signore lituano che abita a Strasburgo e ha studiato, magari, scienze politiche a Londra deliberi, per esempio, sulla pesca nel Mare Adriatico, perché difficilmente sul tema avrà alcuna competenza reale. Ogni ignorante è competente sulle cose che fa e che lo riguardano. Ogni esperto è ignorante su quello che non ha mai fatto e di cui non subirà mai le conseguenze.

Se c’è un futuro per la democrazia, e per l’Europa, non sta nella contrapposizione tra elitarismo e populismo, ma nella ricostruzione di un rapporto tra competenze diverse, nel cercare di definirne i limiti, fissando i temi per cui la delega alla politica deve essere piena e dove non sono possibili scorciatoie plebiscitarie, e quelli, invece, per cui è necessaria una consultazione costante di chi ha tutto il diritto di esprimersi sulla propria vita e sui propri bisogni, perché su quelli è il più esperto di tutti. È un compito di cui dovrebbe farsi carico chi ha una funzione pubblica, le élite, insomma. Non significa, ovviamente, che nel proprio giardino ognuno potrà fare quello che vuole e neppure che ognuno è padrone a casa propria, come dicono quelli che sull’ignoranza ci prosperano. Significa fare politica, ascoltare e tentare di spiegare, come nel Novecento facevano i partiti, i sindacati, la chiesa, significa sforzarsi di mettere insieme esigenze diverse, evitando il più possibile di calare le decisioni dall’alto – «L’Europa ci chiede di fare i compiti a casa», diceva quell’altro – perché altrimenti gli esperti perderanno autorevolezza e mancheranno il loro compito, e gli ignoranti faranno sempre le scelte più facili e saranno condannati a non vedere altro che se stessi e a rinchiudersi nella propria ignoranza. Gli Imperi – e l’Europa è un Impero, o almeno tenta di assomigliargli – funzionano solo se sono elastici, se all’accentramento delle regole che valgono per tutti si accompagna il decentramento  e una certa libertà, solo se si consultano – o almeno considerano – i bisogni e le competenze singole. Negli ultimi decenni questa mediazione è saltata. La colpa peggiore dell’Europa è non essersi minimamente preoccupata di ricostruirla.

Giacomo Papi

Giacomo Papi è nato a Milano nel 1968. Il suo ultimo romanzo si intitola Happydemia, quello precedente Il censimento dei radical chic. Qui la lista dei suoi articoli sui libri e sull’editoria.