Gira la ruota

Dall’incubo del fiscal cliff al dolce risveglio della “grande rotazione”. Pare che negli Stati Uniti stia andando proprio così.

Scampato il pericolo del baratro fiscale con un accordo raggiunto in extremis a fine anno (anche se, va detto, a molti appare più in pannicello caldo che non una duratura soluzione) Wall Street ha scelto di brindare con un segnale inequivocabile di ritrovata fiducia sulle buone sorti dell’economia reale: investendo massicciamente, oltre venti miliardi di dollari, in azioni di società americane piuttosto che in obbligazioni, ossia in quote di capitale sociale invece che in titoli di debito (questi ultimi tra le cause, soprattutto nella versione abusata e diffusissima delle obbligazioni spazzatura, della ultima lunghissima e persistente crisi finanziaria).

Da qui l’espressione coniata da alcuni autorevoli quotidiani economici internazionali di “grande rotazione”, di rotazione cioè a centottanta gradi dei flussi di investimento dalle obbligazioni alle azioni che per i profani, specificava Federico Rampini su Repubblica il 13 gennaio in una sua corrispondenza da New York, vuol significare “rotazione” dal pessimismo all’ottimismo. Insomma, seppur ancora fioca, qualche fiammella di luce alla fine del lungo tunnel della crisi sembra si cominci a intravvedere.

E in effetti nelle ultime settimane alcuni indicatori importanti di rinnovata attenzione alle dinamiche reali (ovvero industriali, occupazionali, sociali, reputazionali) prima che finanziarie dell’economia si sono chiaramente palesati. Per esempio, la decisione di alcune corporation (Apple, Hewlett Packard, General Electric, tanto per citarne alcune) di fare retromarcia sulle delocalizzazioni produttive (il cosiddetto insourcing dopo decenni di outsourcing) e rilanciare la vocazione manifatturiera del made in Usa, che potrebbe quindi creare (secondo stime della società di consulenza Boston Consulting) almeno 2-3 milioni di nuovi posti di lavoro negli Stati Uniti nei prossimi cinque anni.

Oppure la consapevolezza diffusa in una fascia non ristretta di super ricchi che pagare le tasse in proporzione alle proprie disponibilità è giusto e doveroso, come sottolineava in modo circostanziato poco più di un mese fa uno dei capofila di questa “scuola di pensiero”, Warren Buffet:

«Il reddito medio di questo gruppo nel 2009 (i 400 individui a più alto reddito in America, nell’ultimo anno per il quale esistono i dati relativi all’aliquota percentuale media di tasse pagate, calcolata sul reddito lordo rettificato, ndr) è stato di 202 milioni di dollari, che equivale a un “salario” di 97.000 dollari all’ora calcolando una settimana di 40 ore lavorative, dando per scontato che le pause pranzo siano retribuite. Eppure più di un quarto di questi ultraricchi ha pagato meno del 15 per cento di tasse, sommando le imposte federali sul reddito e i contributi. La metà ha pagato meno del 20 per cento e, reggetevi forte, ce n’è addirittura qualcuno che non ha pagato praticamente nulla. Una simile vergogna mette in evidenza la necessità di fare qualcosa di più che limitarsi a una revisione delle aliquote più alte, anche se è da qui che bisogna cominciare».

E ancora, altro segnale non trascurabile, la nomina del nuovo sottosegretario al Tesoro dell’Amministrazione Obama Jacob Lew che, a differenza del suo predecessore Timothy Geithner in “collegamento” continuo con i più prestigiosi ambienti finanziari internazionali, è per molti aspetti considerato estraneo a questo mondo (ad eccezione di un paio di anni trascorsi in Citigroup) e quindi meglio in grado di resistere, così almeno in tanti auspicano, alle fortissime lobby delle grandi banche d’affari che finora, tra le altre cose, hanno impedito che si desse piena applicazione al Dodd-Frank act emanato nell’estate del 2010 per riformare la grande finanza e limitarne il più possibile le attività altamente speculative.

Se ciò avviene al di là dell’Oceano qui da noi, in Italia, come siamo messi?
Domanda quasi retorica verrebbe subito da rispondere.
Piazza Affari, nonostante alcune recenti buone performance, continua a essere una Borsa asfittica, con poco più di 300 società quotate (324), di cui una sola ha fatto esordio nel 2012 sul mercato principale (la Brunello Cucinelli). Va da sé che l’andamento dei suoi indici continua a rivelarsi un indicatore molto parziale dello stato di salute del nostro tessuto industriale.

Quanto al fenomeno della delocalizzazione spesso sembra che molti imprenditori italiani non aspettino altro che l’occasione per “scappare” altrove per risparmiare sul costo del lavoro, sulle tasse, sui costi della burocrazia. Tali costi ci sono, a volte sono davvero ingenti se non insopportabili ma l’impressione non di rado è che molti ci marcino per mascherare il proprio deficit di innovazione e di cultura di impresa. Sul dovere dei grandi ricchi di pagare più tasse è ancora fresca la polemica innescata giorni fa dall’”auspicio” di Nichi Vendola affinché «vadano all’inferno» (nello specifico, l’”invito” era rivolto a Gerard Depardieu che ha deciso di trasferire la residenza in Belgio per non pagare la super imposta del 75 per cento sui redditi personali superiori al milione di euro voluta dal presidente francese Hollande). Quanto rumore per nulla, quanto vittimismo fuori luogo da parte di alcuni “poveri” benestanti, quanta banalità nelle prevedibili accuse al governatore della Puglia di vetero marxismo-leninismo.

Eppure Andrew Carnegie che tanti liberisti di casa nostra dovrebbero conoscere, uno degli uomini più ricchi di sempre, magnate dell’acciaio negli Usa tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento manifestava idee molto chiare sui doveri dell’uomo di ricchezze” nel suo famoso Vangelo della ricchezza:

«Fissare un esempio di vita modesta, senza ostentazioni, e rinunciare ad ogni manifestazione di stravaganza; provvedere con moderazione ai legittimi bisogni di chi dipende da lui; e una volta che l’abbia fatto, considerare il reddito in eccesso, rimasto nella sua disponibilità, come fosse semplicemente un fondo di garanzia, che egli è chiamato ad amministrare sotto lo stretto vincolo obbligatorio di ricercare gli usi che, a suo giudizio, meglio rispondono al calcolo del beneficio della comunità».
E che dire delle seguenti parole del Cardinal Gianfranco Ravasi che, nel suo Breviario sul domenicale del Sole 24 Ore del 18 novembre scorso, dapprima riprendeva questa battuta di Jonathan Swift: «Se il cielo avesse considerato la ricchezza una cosa preziosa non l’avrebbe data a tanti mascalzoni». Quindi Ravasi aggiungeva: «Una battuta che siamo tentati di ripetere spesso anche noi oggi, di fronte a tanta volgarità sprezzante dei ricchi, accuratamente segnalata dalle gazzette».

Infine, per completare la nostra similitudine con gli Stati Uniti, sul ministro del Tesoro italiano c’è poco da dire: non è ancora cambiato.

Sia durante le primarie per la scelta del premier del centrosinistra, sia in questo inizio di campagna elettorale Pierluigi Bersani ha usato un’espressione efficace a proposito della sua intenzione, quando ci sarà tra un anno il prossimo congresso del PD, di non ricandidarsi alla segreteria del suo partito ma di voler «far girare la ruota», di impegnarsi cioè affinché ci sia un ricambio della classe dirigente. Intento apprezzabile e raro in un Paese in cui arzilli ottuagenari continuano a restare attaccati con tutte le forze alla loro poltrona. Ma non basta. C’è bisogno che anche dalla tolda di comando di Palazzo Chigi dove mi auguro salga nelle prossime settimane, faccia subito girar la ruota per promuovere anche in Italia una “grande rotazione”.

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com