Il pericolo di Monti e il Pdl che non c’è

Accadono due cose notevoli, a parere di chi scrive: la prima è che Mario Monti si sta rivelando come un uomo pericoloso, la seconda è che il Pdl si sta rivelando come qualcosa che non esiste.

1) Cominciamo con Monti. Pare sempre più evidente che non vuole essere un candidato alle elezioni: vuole essere candidato dai partiti dopo le elezioni. Vuole essere nominato direttamente da una trasversalità politica che lo consacri come hanno già fatto le banche europee e il Ppe. Ha già dettato il programma, cioè l’agenda. Vola alto, non si abbassa come pure non fece nel novembre 2011: perché lui manovra nei palazzi, non nelle urne. In fondo sta dando pienamente ragione a Massimo D’Alema, che gli aveva chiesto di «preservare la sua figura di super partes e conservarla per il futuro prossimo»: e così farà, divenendo nei fatti una sorta di avamposto del Ppe in Italia.

A Monti non interessano scelte di campo sputtananti, faccende di liste e campagne elettorali, ricerche del consenso e altre schifezze che di norma sporcano le nostre manine democratiche: dopodiché, se qualche lista vorrà richiamarsi a lui come a un venerato maestro, certo lui non potrà opporsi. Ridiventare premier senza la legittimazione delle urne, oltretutto, per il professore sarebbe quasi un ripiego: gli interesserebbe di più la presidenza della Commissione europea, ma pazienza, vada come vada.

Monti può farcela tranquillamente non perché sia il candidato di tutti: ma perché non lo è di nessuno, se non strumentalmente. Berlusconi finge di blandirlo per giustificare la propria candidatura, il pulviscolare «centro» lo sostiene per sfondare elettoralmente e poi trafficare sotto il suo ombrello, la sinistra non lo candida solo perché può vincere da sola (ma con scarso margine, forse) ma potrebbe recuperarlo in seguito, parte del Ppe, infine, lo stra-candida (anche) perché vuole eliminare un pericoloso concorrente per la poltrona di presidente della Commissione. Congetture? Può essere: ma, se così non fosse, Mario Monti si prospetterebbe come la più clamorosa e acclamata deriva antidemocratica che ci sia stata in Italia dopo il fascismo. La speranza è che il Capo dello Stato, non esente da errori, si determini – come ha ribadito anche ieri – nell’incaricare solo e soltanto un premier e un governo politici.

2) Poi c’è il Pdl, o meglio: non c’è. E la manifestazione di domenica, «Italia popolare», è stata il massimo suggello del suo non esserci. Basti pensare che in origine era stata organizzata soltanto per contrapposizione al raduno di Giorgia Meloni e Guido Crosetto più il pavido Alessandro Cattaneo, che al primo brivido si è sciolto nel Ticino. L’incontro doveva ratificare lo strappo tra cattolici e montiani, ma alla fine è diventata una preghiera collettiva a Berlusconi – che manco c’è andato, doveva preparare l’intervista con la D’Urso – con in più il paravento di Monti e dei montiani.

Come Gianni Alemanno, ex destra sociale: montiano. L’ex craxiano Fabrizio Cicchitto: montiano. E montiani anche Quagliariello, Lupi, Sacconi, Formigoni, montiani tutti gli altri pur nella consapevolezza che otto elettori su dieci non sopportano Monti (a destra) ma che tanto il candidato vero resta Berlusconi, il quale farà le liste. Gli infiniti stop-and-go del Cavaliere gli hanno permesso di scovare i dissidenti: ma è stato un lavoro abbastanza inutile, perché poi se li è trovati tutti a Canossa e in qualche modo dovrà ricompensarli. Ecco perché i fedelissimi del Cavaliere sono tutti incazzati: gli spazi si restringono. E in vetrina, a parte le parate televisive, non c’è nulla: non ancora un candidato ufficiale, non un programma anche minimo – basti dire che il Pdl si dice montiano ma prepara una campagna elettorale contro Monti – e non un’identità che oltrepassi il «basta Imu» altre uscite di rimessa.

In genere un partito cerca l’unità: qui c’è unità, improvvisamente, ma non c’è un partito. È una ressa per essere rieletti purchéssia. Non c’è un’idea vera, un programma minimo anche solo economico. A proposito: Tremonti se n’è andato – mentre il bilancio, a torto o a ragione, è catastrofico: il governo Pdl non ha fatto riforme, ha perso elezioni locali, è al centro di scandali giudiziari, si è tenuto il Porcellum, non ha introdotto le preferenze, non ha fatto le primarie previste sin da giugno, non ha definito le alleanze, non ha cambiato nome, non ha introdotto una democrazia interna né ha mostrato di meritarla: questo è – non è – il Pdl.

Mentre i dissidenti veri come Crosetto e la Meloni, d’altra parte, sono alla vigilia di un’autentica scissione ma difettano del tempo necessario a far conoscere un nuovo simbolo. La legge sulla par condicio non gioca a loro favore. In compenso fervono le trattative perché confluisca con loro (o viceversa) anche il «Centrodestra nazionale» dei Larussa, Corsaro e Rampelli: i quali, tutti insieme, respingono Monti esattamente come Berlusconi, entrambi fischiati nell’incontro di domenica all’Auditorium. Guardando il tutto a cannocchiale rovesciato, il Pdl è diventato com’era il Pd: dilaniato, macerato, sperso in mille contraddizioni e impotenze. E il Pd è diventato com’era il Pdl: disciplinato anche se improbabile, levigato anche se fragile. La sinistra, in altre parole, sta vincendo soprattutto là dove aveva sempre perso: nell’immagine. La stessa che Monti cura e lucida tutti i santi giorni: sui giornali italiani, nei palazzi stranieri. Peccato che al Quirinale sia un po’ offuscata.

(Pubblicato su Libero)

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera