L’importanza dell’esame di maturità

Qualche mese fa, al momento dell’insediamento, Matteo Renzi ha detto che la priorità del suo governo sarebbe stata la scuola. Al netto della retorica di prammatica, sembrava almeno un bel cambio di segno. Per Berlusconi sarebbe stato impensabile usare una retorica simile, ma anche Monti e Letta non erano stati capaci di presentarsi in questo modo – preferendo l’evocazione dei fantomatici “giovani su cui investire”. Renzi in un modo semplice poneva invece la questione del rapporto tra le generazioni, l’investimento sul futuro, il tema della responsabilità.

La questione della scuola appunto richiama altro oltre le assunzioni dei precari o la ristrutturazione delle aule scolastiche; e al secondo avvio del programma (i mille giorni dopo i cento giorni), il governo ha varato la sua riformina Giannini e inaugurato questa piattaforma di discussione che si è chiamata La buona scuola. Sarebbe stato insomma rinfrancante credere che a questa retorica anche facile corrispondesse un’idea di società diversa, antifrastica rispetto a un pensiero comune che si ha sulla scuola. Questo pensiero comune, pervasivo fino a quasi a diventare totalitario, per me si può riassumere in questo modo: la scuola serve a preparare per la società. Ci possono essere varie versioni di questo pensiero: la scuola serve a formare per il mondo del lavoro, la scuola serve a rispondere alle sfide della società globalizzata, etc…

Per me la scuola non serve a questo, anzi: questo è il contrario della sua missione. La scuola non deve preparare per un ingresso nella società. La scuola deve immaginarsi una società diversa. Per questo a scuola si leggono – per fortuna finora – le poesie di Leopardi e non le interviste a Sergey Brin, e si analizzano i libri di Nietzsche e non i discorsi di Steve Jobs. Ma le cose appunto stanno cambiando, e in peggio. Ci sono molti esempi di questa fantomatica modernizzazione che mostrano invece l’involuzione di un’idea di scuola immaginativa e non adattiva. Ve ne faccio tre.

Uno è l’articolo di giornale. Come molti di voi sapranno, da circa una quindicina d’anni, c’è la possibilità quando si fa il compito in classe d’italiano nelle scuole superiori, di scegliere forme alternative al classico tema: per esempio il saggio breve, e per esempio l’articolo di giornale.
Ora, lo capite bene l’idea che un quindicenne che magari non ha mai letto un giornale e che non ha alcuna competenza professionale su come si possa scrivere un articolo di giornale – come raccogliere le fonti, come usarle, come verificarle etc… invece possa e anzi debba prendere un foglio protocollo, piegarlo a metà e scrivere tipo “dal Corriere della Sera”, è la caricatura di qualunque idea educativa. Ne ho letti a centinaia di questi compiti in classe, e non per colpa loro, anche quelli degli studenti migliori, sono ovviamente dei prodotti ridicoli. Gli insegnanti d’italiano sono tenuti a fotocopiare alcune fonti (brani di articoli di giornale) su un certo tema, e ai ragazzi viene richiesto di fare un lavoro di copia e incolla, farcendolo poi di opinionismo da tuttologi senza freni. Alcuni di questi compiti in classe non sono nemmeno la simulazione di un articolo di giornale, ma la telecronaca di una programma televisivo (si può scegliere anche questa formula): e così gli studenti iniziano a scrivere “Siamo qui con la troupe del Tg5 davanti a Palazzo Chigi, mentre è appena uscito il presidente del Consiglio…”, oppure a inventarsi inviati di Report o delle Iene. Che idea di scuola è questa, di fronte alla quale la Walt Disney di Nanni Moretti sembra un modello di autorevolezza gesuitica? Perché quest’obbrobrio – questa condanna celebrata del dilettantismo e del qualunquismo – deve andare avanti, insegnando ai ragazzi che il giornalismo non sia altro che opinionismo rabberciato, infarinatura impressionistica dell’ultimo minuto?

Due è l’insegnamento di una materia in lingua. La riforma Gelmini prevedeva che una materia – Storia dell’Arte, Matematica, Storia, una materia qualunque – all’ultimo anno delle superiori fosse insegnata in lingua. “Nel quinto anno (dei licei) è impartito l’insegnamento in lingua straniera di una disciplina non linguistica compresa nell’area delle attività obbligatorie per tutti gli studenti. Tale insegnamento è attivato in ogni caso nei limiti degli organici a legislazione vigente”. Su questa misura ogni tanto sono state inviate alle scuole circolari per farla applicare: quante ore, se fare compresenza con il lettore della lingua straniera, che strumenti didattici usare, se insegnarla all’orale o allo scritto… L’ultima circolare che è arrivata a scuola è meravigliosa: dice sostanzialmente Fate come cazzo vi pare. Non parla di strumenti, di un organico dedicato, di valutazione. Io domattina potrei entrare in classe e spiegare Kant in tedesco. O in spagnolo, perché no. Magari nel mio tedesco risibile, e nessuno mi direbbe nulla. Il mio quinto prenderebbe appunti dalla mia versione del professor Kranz. All’esame di maturità poi gli studenti potrebbero con questo globish magari svolgere un tema di storia, o direttamente compilare un articolo di giornale.

Tre è il fare collegamenti. L’ultima riforma ha introdotto anche l’obbligo per gli studenti di portare una tesina alla maturità. L’argomento della tesina è qualunque. Parti da una cosa che ti interessa, viene consigliato agli studenti. Vanno bene i Queen? Va bene il piercing?, chiedono loro. Va bene qualunque cosa, certo, rispondiamo noi professori, costretti a questa farsa a due, e proveremmo a aggiungere: Va bene qualunque ricerca, basta che la ricerca sia svolta in modo rigoroso, con il metodo che abbiamo imparato, le note, la bibliografia… Ma in realtà la vulgata dei professori è un’altra, e l’unico suggerimento che viene ammannito agli studenti – consiglio che poi diventa un diktat – è: Fai i collegamenti. I collegamenti che tocchino tutte le materie, mi raccomando. L’idea della multidisciplinarietà dei saperi viene ridotta a questo feticcio demenziale. Ci sono studenti incolpevoli che lo prendono alla lettera e fanno una tesina che parte da Storia parlando dei mezzi di comunicazione di massa (la radio), passano a Chimica (il radio), per arrivare a Educazione fisica (il radio e l’ulna).

Nonostante queste innovazioni pagliaccesche, però, chiunque di voi abbia assistito a un esame di maturità può ammettere che si tratta ancora di un momento forte con un suo valore rituale e effettivo. Ogni volta che faccio gli esami di stato, si sviluppa in me spesso un principio di commozione. Mi sembra di stare davanti a una cosa importante. Sentire ragazzi di diciannove anni padroneggiare bene o male, una serie di materie diverse, dalla tettonica a placche alla poetica di Seneca, vederli saper tradurre all’impronta in latino e risolvere subito dopo un problema di analisi, ecco – e qui vorrei dirlo in modo consapevolmente retorico – che mi passa tutto lo scoramento endemico della fatica dei lugli inoltrati a riempire i moduli del Ministero dell’Istruzione, e riconosco il senso dell’insegnamento.

Ora, questo rito, secondo l’ultima legge di stabilità, dovrebbe essere eliminato. Da giugno dell’anno prossimo, come sapete, gli esami di maturità si dovrebbero svolgere solo con commissari interni, e con solo un commissario esterno a vigilare (più un notaio che un professore, a questo punto). Qual è il motivo di questa riforma di un governo che dice di avere come sua priorità la scuola? Il risparmio di 140 milioni, dicono. Per un piatto di lenticchie neanche troppo consistente si mina ancora una volta l’idea di scuola come impegno, dispositivo di trasformazione, etc…
Quale sarà l’evidente effetto di questo provvedimento? Che la valutazione dell’esame di Stato sarà meno credibile. Il rapporto tra famiglie e docenti sarà ancora di più sotto ricatto. Che senso avrà bocciare? Per qualunque giudizio potrebbe essere ancora più facilmente chiamato in causa il TAR, che già ora è lo spauracchio delle commissioni di esame che temono di dover essere richiamate dalle vacanze da studenti che fanno ricorso. Le scuole private, soprattutto quelle che funzionano come diplomfici, saranno l’eldorado di qualunque famiglia che cerca facilitazioni: l’unico ostacolo che si frapponeva all’equazione pago = mi promuovi mio figlio sarà rimosso.

Ma è proprio il concetto stesso di educazione come passaggio all’età adulta che verrà a essere svilito. I professori saranno chiamati, ancora di più di quanto siano oggi, a essere materni. Il ruolo terzo della scuola nel patto educativo si perderà. La relazione scolastica diventerà promiscua: un pregiudizio negativo o positivo su uno studente continuerà a rimanere fino all’uscita dei quadri. Nessun ragazzo avrà diritto a capire quanto veramente vale, al di là del buon rapporto con il professore.

Togliere un esame serio ai ragazzi è quanto di peggiore si possa fare loro. Non serve un pedagogo a capirlo. I ragazzi, come chiunque, vogliono essere valutati. E vogliono che quell’esame sia difficile. È un loro desiderio, e un loro diritto costituzionale verrebbe da dire. A diciott’anni chi non ha desiderato una sfida? Eliminare le sfide vuol dire alienare in un’eterna adolescenza una serie di generazioni che voleva solo crescere, e non essere falsamente rassicurata.

Christian Raimo

Christian Raimo è nato (nel 1975) e cresciuto e vive a Roma. Ha studiato filosofia e ha pubblicato per Minimum Fax due raccolte di racconti: Latte (2001) e Dov'eri tu quando le stelle del mattino gioivano in coro? (2004). È un redattore di «minima&moralia». Nel 2012 ha pubblicato per Einaudi Il peso della grazia.