Parliamo di agricoltura reale

Una cosa è parlare di agricoltura ideale, un’altra è affrontare i problemi dell’agricoltura reale. La tendenza nel campo agricolo è lasciar parlare (via media generalisti) i non addetti ai lavori, i quali, in sella a un cavallo oppure organizzando banchetti, raccontano l’agricoltura. Per carità, è una via, una scelta autoriale promozionale, che tuttavia non produce conoscenza approfondita. Quindi, se vi interessa capire come funzionano le cose in campo, cioè quali complesse dinamiche si instaurano, allora Marco Pasti è l’addetto ai lavori che fa per voi.

Ciao, ti presenti?
Eccomi, sono Marco Aurelio Pasti, nome un po’ roboante, da imperatore, ma
era il nome di mio nonno nato nel 1895, 72 anni prima di me.

Sento che c’è una storia dietro il nome…
Il mio bisnonno, Francesco, è morto di tifo nell’anno dell’Expo di Milano nel 1906 e dopo 5 anni, ancora minorenne, mio nonno è arrivato a Grisolera (terra delle grisole, canna palustre dal colore grigio che prende durante l’inverno) dove la sua famiglia assieme ad altri aveva comprato una valle da bonificare. Completata la bonifica è arrivata la guerra e dopo la rotta di Caporetto il fronte tra Italia e Austria si è stabilito sul Piave proprio a ridosso dell’azienda appena bonificata che fu di nuovo sommersa.

Ahia, e allora?
Dopo la guerra la bonifica privata è stata conferita al consorzio di bonifica dell’Ongaro inferiore che grazie ai fondi pubblici ha ripreso, consolidato ed integrato le opere intraprese prima della guerra.

Ok, questi sono i tuoi nonni e tu?
Io invece sono nato a Padova e ho vissuto l’infanzia ad Eraclea, nuovo nome di Grisolera, per poi studiare a Padova dove mi sono “maturato” al liceo classico e Laureato in Scienze Agrarie. Prima di laurearmi ho studiato un anno a Davis in California nell’ambito di un programma di scambi tra l’università di Padova e quella di California e nell’anno della laurea sono andato a lavorare in una piantagione di rose situata nelle Ande dell’Ecuador poco a nord di Quito.

Rose sulle Ande, vabbè, magari una volta ti chiedo di raccontarmi del colore delle rose sulle Ande, ma restiamo in Italia.
Quando sono rientrato in Italia ho cominciato a lavorare nell’azienda di famiglia. Mi sono appassionato alle biotecnologie seguendo un breve corso tenuto da Andrea Squartini collaterale alle lezioni di microbiologia di Marco Nuti. Per la tesi di laurea mi sono infilato in uno studio sui geni che promuovono la nodulazione del rizobio con la sulla, una leguminosa biennale capace di crescere su terreni con ph relativamente alto.

Ok, questi sono gli studi, ora invece che coltivi?
Ora mi occupo di seminativi, mais, soia, barbabietole, grano e orzo, di un impianto di biogas e recentemente di noci da frutto. Sono stato anche presidente dell’associazione italiana maiscoltori (AMI) con la quale sono entrato in contatto con le altre associazioni europee e anche americane.
Durante la mia presidenza dell’AMI ho cercato invano di far capire all’opinione pubblica, ai politici e persino agli agricoltori quanto fosse per noi utile il mais OGM resistente alla piralide. Dagli agricoltori argentini ho appreso la tecnica della semina su sodo, che sembrava molto promettente, e che poi da noi ha visto esperienze positive come anche negative. In definitiva mi ritengo un agricoltore curioso.

Aspe’, che mo ne parliamo, a proposito di curiosità, pensi che l’agricoltura italiana soffra di un deficit di curiosità? Insomma, siamo più propensi a immaginare (idealizzare) l’agricoltura di una volta?
Non saprei come rispondere. Nel senso che in genere sono le persone più che le cose ad esser curiose, le cose possono suscitare curiosità nelle persone e credo che l’agricoltura italiana sia estremamente varia e praticata in un territorio con climi e suoli molto variabili, quindi credo che l’agricoltura italiana sia in grado di suscitare grande curiosità. Io ad esempio alla fine dei miei studi universitari ero molto curioso di indagare sul “linguaggio” tra piante e microorganismi che interagiscono con rapporti di collaborazione, come il rizobio, o di “guerra” come i vari patogeni.

Pensavo all’immaginario generalista…
Se guardiamo all’insieme delle persone, ovvero alla società italiana, credo che si sia povera di curiosità e sia vittima di un racconto che ha appagato la curiosità riempiendo l’immaginario collettivo di immagini funzionali al marketing di questo o quel prodotto, o sistema produttivo o catena di distribuzione.

Ok, motivo?
È stato riempito il “vuoto”culturale che il passaggio generazionale ha lasciato: con la fuoriuscita dal settore primario di molte persone passate nel dopoguerra al settore secondario e poi al terziario, la società italiana ha perso il contatto con il mondo rurale e man mano che parenti, zii e nonni cessavano l’attività agricola, si è perso un contatto diretto con l’agricoltura e nel frattempo l’agricoltura stessa si è molto evoluta adottando tecnologie sempre più sofisticate e specializzandosi sempre più.

Quindi, non toccando le cose con mano si è divisa l’agricoltura in immaginaria e reale e i due mondi hanno smesso di comunicare, si sono fatti la guerra…
Sì, il risultato è che l’immaginario collettivo ha un’idea molto distante dalla realtà produttiva: da un lato è stata data un’immagine di un’agricoltura industrializzata vittima delle multinazionali, altamente inquinante e distruttiva per l’ambiente che produce alimenti pieni di pesticidi dannosi per il consumatore, dall’altro un’altra agricoltura “bucolica” rispettosa dei ritmi della natura senza chimica e biotecnologie in grado di produrre alimenti sani per tutti.

Se mi chiedono vuoi farti operare da un chirurgo degli anni ’50, quello dei tempi di tuo nonno e uno moderno è chiaro che io rispondo moderno (voglio l’innovazione). In agricoltura? Insomma, potrei sentire una vocina che mi dice: meglio il cibo di una volta…
In pratica si è passato il messaggio che l’innovazione e le tecnologie in agricoltura non sono da applicare. Credo serva curiosità da parte dell’opinione pubblica per superare questo messaggio distorto e bisogna farlo perché dalla percezione dell’opinione pubblica partono le scelte politiche che regolano il settore.

Senti, andiamo sul pratico, ti faccio una serie di domande: perché coltivi (anche) mais?A chi lo vendi, a che serve, non hai paura di occupare per anni i terreni e ridurre la biodiversità, ecc.?
Coltivo mais perché è una delle piante più efficienti nel convertire anidride carbonica e acqua in carboidrati grazie all’energia solare: in 120 giorni, da maggio a settembre, un metro quadro di mais, con 7 piante, riesce a produrre mediamente in Pianura Padana 1 kg di granella, e considerando l’intera pianta circa 2 kg di sostanza organica: per fare questi 2 kg sottrae dall’atmosfera quasi 3 kg di anidride carbonica.

Numeri eccezionali, per chi è del settore…
Sì, sembra ci sia un errore di calcolo in questi numeri perché la materia non si crea e non si distrugge ma si trasforma e infatti la pianta trasforma l’anidride carbonica e l’acqua in carboidrati e ossigeno che viene rilasciato in atmosfera.

Quindi a metro quadro?
Ogni metro quadro coltivato a mais quindi produce 2 kg di sostanza organica, e rilascia in atmosfera 2 kg abbondanti di ossigeno oltre a 500 kg di acqua traspirata sotto forma di vapore. Questo vapore poi forma nuvole e pioggia che torna sulla terra, è un ciclo e dire che il mais consuma molta acqua, come ha fatto Slow Food all’expo di Milano è dunque fuorviante perché si tratta di un ciclo…diciamo che il mais ricicla l’acqua come tutte le piante del resto.

Si sarebbe il caso, una volta per tutte di chiarire il ciclo dell’acqua, mi impegno a farlo, ma restiamo al Mais.
Tornando a noi, produco mais perché il nostro territorio è vocato alla sua coltivazione, non per niente un soprannome dei veneti era “polentoni”, e produco mais per usi diversi: alimentare, zootecnico e per la produzione di biogas. Coltivo il mais in rotazione con soia, frumento barbabietole, quindi mi occupa il terreno per un solo anno.

Va bene, e la biodiversità…
Il discorso sulla biodiversità, intesa come grado di variazione delle forme di vita all’interno di una data specie, ecosistema, bioma o del pianeta intero, è complesso, perché dipende appunto dall’ambito in cui la considero. Un’elevata biodiversità in un campo coltivato può ridurre la produzione e spingere alla coltivazione di nuovi terreni da qualche altra parte nel globo riducendo quindi altrove la biodiversità. Da questo punto di vista credo che il mais consenta di rispettare meglio la biodiversità a livello globale di molte altre colture

Ok, e se consideriamo il campo singolo?
A livello di singolo campo credo che la tecnica colturale influenzi la biodiversità almeno quanto la coltura; ad esempio si è visto che la semina su sodo favorisce moltissimo l’entomofauna del terreno che, non più sconvolto dall’aratura, facilita il proliferare di insetti e lombrichi etc.

Aspe’, spiega semina su sodo (senza aratura).
La tecnica sella semina su sodo si è molto diffusa soprattutto all’estero offrendo grandi vantaggi per ridurre l’erosione dei suoli e l’ossidazione della sostanza organica, è la forma più “spinta” di agricoltura conservativa. In pratica sono state messe ha punto delle seminatrici che, generalmente tramite appositi dischi, riescono ad aprire il terreno non lavorato e depositare il seme alla giusta profondità e a richiudere il solco per farlo germinare ed emergere garantendo quindi un giusto mix di umidità e aria.

Sembra facile ma…
Sembra facile ma è molto più complesso della semina su terreno lavorato perché ho meno attrezzi per correggere “il tiro”. Devo gestire il residuo delle colture precedenti o delle colture di copertura: mi serve come pacciamatura per ridurre l’evaporazione e come nutrimento di microorganismi, ma devo evitare d’infilarla nel solco di semina altrimenti il seme non va a contatto col terreno e non assorbe l’umidità necessaria.

Ci sono un sacco di parametri da rispettare…
Sì, devo evitare la compattazione perché se piove crea ristagno e mancanza di ossigeno alle radici ma se fa secco crea difficoltà di penetrazione delle radici; devo fare in modo che il concime arrivi alle radici più che ai microrganismi che decompongono il residuo e devo gestire la flora infestante senza lavorare il terreno. In fondo uno degli scopi principali dell’aratura era proprio quello di controllare le “erbacce” sradicandole ed interrandone i semi ad una profondità da cui non possano emergere. La tecnica della semina su sodo si è diffusa molto a partire dagli anni ‘80 anche grazie alla disponibilità
di una molecola poco tossica ma molto efficace per il controllo della flora infestante, le erbacce: il glifosate.

Ma è il grande accusato, va bene, parliamone. Insomma, in genere si ara, poi si diserba senza sapere bene che erbe ci sono, poi si semina e poi si fa una seconda o una terza passata di erbicida (le erbe infestanti competono per i nutrienti, quindi rischiamo, tanto per fare un esempio, di fumarci i papaveri, che so belli, e non raccogliere grano, però capisco che è un argomento tecnico). Invece con glifosate?
Fare semina su sodo senza glifosate sembra molto difficile (anche se qualcuno ci sta provando) quindi se verrà vietato l’uso di questa molecola si rischia una perdita di biodiversità oltre che un peggioramento delle emissioni di gas climalteranti: il controllo della flora infestante dovrà esser fatto con più lavorazioni meccaniche che da un lato aumentano il consumo di combustibili fossili e dall’altro aumentano l’ossidazione della sostanza organica del terreno.

Senti, a proposito di sostenibilità, dopo il glifosate, vogliamo affrontare il capitolo biotech? Come è perché il biotech potrebbe garantire una coltivazione più sostenibile?
Semplicemente perché rispetto al miglioramento genetico classico, fatto tramite incrocio e selezione, offre molte più possibilità di adattare le piante alle nostre esigenze, cosa che abbiamo iniziato a fare con l’inizio dell’agricoltura ma con metodi meno efficaci e che richiedevano molto tempo.
Non che il miglioramento genetico classico sia obsoleto perché rimarrà sempre importante, ma semplicemente sono uno strumento in più che è in continua evoluzione.

Dai, raccontiamo questo percorso.
Dai primi “OGM” siamo arrivati alle nuove tecniche di miglioramento genetico (NBT) che permettono di modificare il DNA quasi come con il programma con cui scrivi questo articolo ci permette di cercare il testo ed eventualmente modificarlo.

Ok, a che mi serve?
Questo è molto utile non solo per produrre nuove piante ma anche solo semplicemente per studiarne il funzionamento. Oggi disponiamo di una “cassetta degli attrezzi” sempre più ricca di strumenti che spesso sono complementari più che alternativi.

Mi fai esempio sul mais, che è la tua pianta, per così dire…
Ok, allora, torniamo al mais, quello resistente alla piralide è un bell’esempio di una “tecnologia win win win”, ovvero vantaggiosa per l’ambiente, il consumatore ed il produttore e ora ti spiego perché. La piralide è una farfallina notturna di origine europea la cui larva mangia molte piante diverse, ma è particolarmente ghiotta di mais, pianta americana creata dall’uomo, anzi probabilmente da una donna circa 10.000 anni fa. Con la “globalizzazione” secoli or sono il mais è arrivato in Europa e qualche secolo dopo la piralide è arrivata nelle Americhe ed è proliferata grazie all’abbondante disponibilità di cibo.

E fa disastri…
Crea molti danni soprattutto negli ambienti con notti calde come in pianura padana o nel sud est asiatico. Oltre alla minor produzione e minor qualità della granella il problema, che è emerso negli ultimi 30 anni, è che, proprio in questi giorni, dopo la fioritura del mais, la piralide attacca la spiga del mais.

È un insetto vorace…
Infatti, e questo danno facilita il proliferare di una muffa che produce sostanze tossiche per l’uomo e gli animali chiamate fumonisine che sono un tipo di micotossine (tossine prodotte da fungo). Sembra che la pianta attaccata dall’insetto emetta delle sostanze per cercare (invano) di difendersi e queste sostanze inducano questa muffa a produrre ancora più fumonisine.

Risultato?
Il risultato è che in Italia abbiamo dell’ottimo mais ma tra i più contaminati di fumonisine e dobbiamo applicare insetticidi dopo la fioritura del mais per contenere i danni della piralide e la contaminazione da micotossine.

Ma a problema corrisponde (spesso) soluzione…
Se potessimo usare il mais modificato geneticamente per resistere alla piralide non dovremmo applicare questi insetticidi avremmo una difesa migliore e meno micotossine nella granella.

Va bene, e perché è più sostenibile?
Ci guadagnerebbe l’ambiente perché non applico insetticidi e anche perché il controllo della piralide sarebbe migliore e anziché produrre un chilo di granella per mq ne produrrei 1,1-1,3 a seconda del posto e dell’annata.
Quindi per produrre un chilo di granella potrei usare dal 10 al 30% in meno di energia, concimi, prodotti fitosanitari acqua e ogni metro quadro potrebbe assorbire dal 10 al 30% in più di CO2 cioè da 3 a 9 etti in più

Fatti i calcoli…
… pensa: su un milione e mezzo di ettari di mais, che coltivavamo 10 anni fa, avremmo potuto assorbire mediamente oltre 7 milioni di tonnellate in più di CO2. È vero che chi fa i conti dei cambiamenti climatici non tiene conto di questo perché dicono che è CO2 che torna in atmosfera nel giro di poco tempo, ma intanto non è più in atmosfera e poi potrei forse importare meno mais e spingere alla conversione in suoli agricoli meno ettari di foresta tropicale. Rispetto a 10 anni fa oggi abbiamo dimezzato la produzione di mais in Italia e importiamo oltre metà del nostro fabbisogno.
Il problema è che gli ambientalisti sono in questo caso specifico un problema per l’ambiente, rifiutano una tecnologia bio (tech). Mi piacerebbe discutere di questo con tutte le associazioni ambientaliste che si sono opposte alla coltivazione del mais resistente alla piralide in Italia.
L’azienda di cui mi occupo è tre metri sotto il livello dei mari e il cambiamento climatico mi spaventa molto, non possiamo affrontare quest’emergenza con l’immaginario collettivo ma dobbiamo scendere nel reale, esaminare i numeri e per averli dobbiamo anche fare sperimentazione.

Che passaggi immagini per saltare il fosso?
Incominciamo a permettere la sperimentazione del mais resistente alla piralide che ormai importiamo da 20 anni. Scusa mi sono troppo dilungato sull’ambiente ma è che mi sta molto a cuore. I vantaggi per i consumatori del mais resistente alla piralide sono legati al minor contenuto di micotossine e per il produttore a maggiori produzioni di miglior qualità tecnologica e sanitaria. Poi credo che con buone regole sulla coesistenza ognuno potrebbe produrre quello che più gli aggrada o che il mercato chiede.

Senti, Marco, ultima: come ti immagini l’agricoltura del futuro, riusciremo a produrre More From Less? Considerato anche l’arrivo di tre miliardi di persone?
Allora in teoria mi sentirei fiducioso perché il progresso nelle conoscenze e nella tecnica accelera e ci potrebbe permettere di migliorare moltissimo le attuali produzioni sia per il rispetto dell’ambiente sia per il livello produttivo.

In teoria…
In pratica non sono così ottimista: quasi nessuno di noi ha provato la fame e dà la disponibilità di cibo come fatto scontato. Così sottovalutiamo il problema, investiamo poco in ricerca, facciamo distruggere dei campi sperimentali dell’Università della Tuscia sul più bello, cioè quando stanno incominciando a dare dei risultati, e dopo 10 anni di sperimentazione, perché non ascoltiamo i ricercatori pubblici ma riteniamo più credibile Mario Capanna a capo del movimento per i diritti genetici (finanziato per diversi anni con i fondi del ministero dell’agricoltura). Ecco se non ritroviamo la curiosità di andare oltre i messaggi del marketing, se ci fermiamo ad un acronimo che
identifica una tecnica anziché incuriosirci dei prodotti ottenuti con tale tecnica, beh rischiamo grosso anche perché molte aziende come la mia fra 100 anni potrebbero esser sommerse dal mare.

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.