Trenta giorni, e già Renzi pare più forte

Il governo Renzi ha un mese, oggi. Certo nessuno potrebbe dire che abbia già cambiato l’Italia. Nessuno però potrebbe negare che in trenta giorni sia cambiato, e molto, il clima intorno alla figura e al tentativo del presidente del consiglio.

Nel paese, seri sondaggi alla mano, la credibilità personale e il consenso per Renzi si sono irrobustiti. Non era una cosa di cui dubitare. Nel rapporto diretto con l’opinione pubblica, in un certo senso liberatosi della casacca stretta di capo partito e indossata quella che sente più sua di leader popolare, Renzi dà il massimo. Non è ancora nella fase della verifica degli impegni presi, dunque nessuna sorpresa che i suoi numeri siano così alti. Come conferma Paolo Natale, i più alti fatti registrare in Italia da quando gli istituti svolgono analisi scientifiche continuative.

Un mese fa, a cavallo dell’improvvisa e traumatica ascesa a palazzo Chigi, tutti sapevamo e registravamo che a tanto favore popolare si accompagnavano invece nell’establishment politico, economico e giornalistico diffidenza, ostilità, pessimismo. I dubbi su ciò che si stava facendo e che si sarebbe potuto fare erano espliciti perfino nel campo dei simpatizzanti. E i primi passi del governo Renzi in parlamento lasciavano presagire un rapidissimo cortocircuito tra mondi apparentemente incompatibili, con l’aggravante di un Pd in effetti non espugnato e in molte sue componenti apertamente desideroso di rivincita.

È qui, nell’atteggiamento del Sistema verso Matteo Renzi, che in trenta giorni è davvero cambiato molto.

Non perché le correnti di diffidenza e ostilità non continuino a fluire, in profondità. O perché si siano sinceramente ricreduti quelli che al primo passo falso vorrebbero restituire al rottamatore gli schiaffi presi.

Ma è evidente che nessuno più considera Renzi una cometa condannata a spegnersi presto. All’opposto, ci si posiziona in un firmamento nuovo intorno a quella che pare destinata a restare a lungo come stella fissa. I più intelligenti hanno capito che con Renzi non funziona offrire servigi, consigli o supporti non richiesti. Più utile contribuire, anche di propria iniziativa e per la propria parte, alla costruzione dell’ambiente politico nuovo che Renzi per primo ha determinato ma nel quale non abiterà né si muoverà da solo.

Il caso dell’incontro con Massimo D’Alema è fortemente emblematico da questo punto di vista.

L’appeasement fra i due ha reso felice la cronaca politica. Può darsi che in breve produca un’alleanza sullo scacchiere europeo utile anche all’Italia oltre che ai diretti interessati (desiderosi uno di far valere a Bruxelles il proprio curriculum e l’altro di coprire saldamente il fianco interno di partito). Ma nello scambio tra ex rottamato ed ex rottamatore c’è stato qualcosa di più interessante ancora: l’impresa di governo in corso è stata proposta da Renzi e riconosciuta da D’Alema non come evento estemporaneo (che vive solo nel presente, senza passato né futuro, come si suole dire del renzismo), bensì come ripresa di una stagione altrettanto ambiziosa di riforme e di sfida al conservatorismo di sinistra.

Insomma viene riconosciuta una parabola (lungo la quale lo scontro con la Cgil è la costante distintiva), che parte col D’Alema del ’97, tiene ferma l’ispirazione prodiana, passa per il Veltroni del 2007 e approda a Matteo Renzi. A prescindere dal fatto che il quarto riesca o meno dove i primi tre hanno fallito (per incapacità di spezzare del tutto i legami col passato), ciò che conta ora è aver inserito l’epopea renziana in una storia. In una vicenda lunga, nella quale possono riconoscersi persone e generazioni che viceversa sembravano destinate a rimanere incenerite dal nuovo corso.

Sicché, anche se Renzi rimane un unicum, di preferenza non riconosce progenitori e fa benissimo a fare così, ciò che rimane del mondo di sinistra può finalmente accettarlo come una creatura propria, una spiazzante e brusca evoluzione della specie. Perfino Ugo Sposetti deve ricredersi, o far finta di. Le prime scelte di governo, dagli 80 euro per i meno abbienti ai tagli al programma F35, aiutano. Per quanto controversa e potenzialmente controproducente, la garanzia dalemiana aiuta altrettanto. Tanto nessuno può più immaginare che, fra i due, il più giovane possa subire fascinazioni o tutoraggi. E se la minoranza verrà coinvolta nella gestione del Pd, sarà per mera espansione dell’influenza del segretario e non per il vagheggiato bilanciamento di poteri.

Il processo di riconoscimento e di resa di rispetto verso il newcomer è molto più ampio di così, va oltre la sinistra.

Le simpatie di Berlusconi da istinto personale evolvono in fatto politico quando Forza Italia bussa alle porte della maggioranza di governo (provvederà Alfano a tenerle sbarrate).

La nomenklatura dei manager pubblici e parapubblici, come quella della burocrazia di stato, rinuncia alla speranza della meteora e misura i rapporti di forza con un decisore politico che non solo dichiara di volerla seriamente ridimensionare, ma arriva a quantificare il taglio di prebende e privilegi. Certo, in questo confronto potenzialmente dirompente (atteso dai supporter renziani come l’unica vera rivoluzione) il Jurassic Park annusa che l’avversario è ancora fragile (non si districa neanche fra le necessarie nomine e deleghe interne a palazzo Chigi e al governo), ma deve accettarne la reiterata determinazione. E quando un potente come Mauro Moretti si espone come ha fatto ieri sulla materia incandescente degli stipendi dei manager, regala a Renzi e al renzismo la prova da esibire delle proprie incisive intenzioni.

In generale, le forze sociali, economiche e finanziarie prendono atto che l’Italia ha in Europa un nuovo campione: conviene a tutti loro che il premier porti a casa risultati con la tattica (probabilmente improvvisata, come molte altre) di alzare la voce in patria e farsi accettare dai partner all’estero. La fase di transizione che si apre nell’Unione aiuta Renzi, il suggerimento dalemiano a strattonare una commissione ormai in uscita è stato subito messo in pratica. E in ogni caso qualsiasi incidente con Bruxelles, piccolo o grande, può causare problemi incomparabili col vantaggio di presentarsi agli elettori come colui che non le manda a dire a Barroso e a Olli Rehn: è un gioco di corto respiro, certo, ma è in queste settimane e mesi che si decide il confronto con gli antieuro di Beppe Grillo.

Alla partenza del governo abbiamo tutti scritto che i suoi destini si sarebbero giocati nei primi tre mesi. Ingenuamente, forse, legavamo l’esito del test alle prime concrete realizzazioni. Da toccare con la mano di San Tommaso non c’è ancora nulla di definitivamente acquisito, neanche la riforma elettorale (anzi la riforma elettorale meno di altre cose). Eppure un terzo del periodo di prova se n’è andato, e non ce n’è uno che non veda Matteo Renzi molto più forte di quando è partito.

Non può essere solo potenza dello spin e della comunicazione. Diciamo che la società politica, almeno per ora, ha deciso che le conviene mettersi nella scia d’opinione della società dei cittadini. E così Matteo Renzi, cosa non da poco, ha il tempo che gli serve per riempire i molti buchi che ha ancora intorno a sé.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.