Tre cose che mi hanno fatto paura

L’attentato al settimanale satirico Charlie Hebdo mi ha fatto paura. Non mi era mai capitato prima: per professione e per inclinazioni personali raramente rimango coinvolto dalle notizie di cui mi occupo. Questa volta non è stato così. Eppure non ero un lettore affezionato di Charlie Hebdo e, anche se sono ateo e non ho mai ricevuto un’educazione religiosa, le vignette su Maometto non mi hanno mai fatto ridere. Ho cercato di capire il perché dei miei sentimenti e penso che ci siano tre cose che mi hanno turbato particolarmente in quello che è successo alla sede del Charlie Hebdo.

La stupidità
Prima di entrare nell’edificio di Rue Nicolas Appert, due attentatori hanno preso in ostaggio Corinne Rey, una disegnatrice del settimanale. Rey stava entrando nell’edificio tenendo per mano sua figlia di tre anni. I due uomini le hanno minacciate, si sono fatti aprire una porta e si sono fatti indicare gli uomini che volevano uccidere. Stéphane Charbonnier, Jean Cabut, Philippe Honoré, Bernard Verlhac e Georges Wolinski e altri quattro collaboratori del giornale sono morti perché i terroristi volevano uccidere proprio loro. Ma non li volevano morti perché Charlie Hebdo era responsabile dell’occupazione militare di un paese musulmano o perché stava opprimendo una minoranza. Probabilmente, Charbonnier e gli altri sono stati uccisi per delle vignette che avevano disegnato. Questo concetto è così importante che penso vada ridotto all’osso e ripetuto: nove persone sono morte perché avevano fatto dei disegni. L’insensata stupidità di questo ragionamento è così enorme che mi lascia senza fiato.

La paura dell’estremismo
Nove vittime dell’attacco erano giornalisti o collaboratori del giornale e il fatto che l’attacco sia avvenuto durante una riunione di redazione ha reso l’attentato molto più reale e spaventoso per quelli che fanno lo stesso lavoro delle vittime. Questo non deve farci dimenticare che per la stragrande maggioranza dei miei colleghi (e in realtà, di tutti i cittadini dell’Europa occidentale) il rischio di perdere la vita in un atto di terrorismo violento è considerevolmente inferiore a quello di essere colpiti da un fulmine. Nel nostro mondo restare feriti o menomati è molto più facile che accada guidando un’automobile piuttosto che disegnando vignette su Maometto. Questo non toglie che le vittime di Charlie Hebdo, come ha scritto George Packer sul New Yorker, sono vittime di una ben specifica ideologia che da decenni sta cercando di ottenere il potere con gli strumenti del terrore. Questa ideologia si chiama estremismo islamico e i gruppi che portano avanti questa ideologia in maniera violenta oggi si chiamano Boko Haram, al Qaida, al Shaabab e Stato Islamico.

Questi gruppi non possono vincere la loro battaglia e sono destinati ad essere sanguinosamente sgominati. Ma per prosperare queste ideologie hanno bisogno di un brodo di cultura che spesso è fatto di un misto di povertà, ignoranza, oppressione, vittimismo, paranoia e fanatismo. Questo brodo è diffuso all’interno della società islamica molto più di quanto non sia diffusa l’ideologia del terrorismo violento, che riguarda solo una minuscola minoranza. I sondaggi condotti tra la popolazione musulmana nel mondo dimostrano che una larga maggioranza ritiene che l’attentato dell’11 settembre sia frutto di un complotto. Che i problemi dei loro paesi derivino molto più dalle azioni compiute dall’occidente che dalla corruzione delle loro classi dirigenti e dalla mancanza di democrazia. Percentuali significative di giovani musulmani ritengono che l’apostasia debba essere punita con la morte.

L’attacco a Charlie Hebdo forse è un episodio isolato. È il più grave attentato in Francia dalla fine della Seconda guerra mondiale, dopo la bomba del 1961 sul treno Strasburgo-Parigi. È anche uno dei pochissimi attacchi avvenuti in Europa negli ultimi dieci anni, insieme all’attentato di Londra e a quello della stazione Atocha di Madrid. Ma forse è anche un segno che questo clima tossico rischia di diffondersi sempre di più all’interno di una fetta sempre più larga della nostra società. Se fosse così, il sospetto e la paranoia di una parte dei musulmani finiranno inevitabilmente con l’alimentare altrettanto sospetto e paranoia anche tra una parte degli occidentali. Anche se il terrorismo sarà sconfitto, una società divisa tra due comunità capaci soltanto di guardarsi in cagnesco con la mano perennemente sul calcio della pistola non è un posto dove vorrei crescere i miei figli.

La paura di noi
Come il timore fisico per la mia persona anche quest’ultimo è un timore remoto. Non è scritto in alcuna legge di natura che il nostro destino sia quello di vivere in un continente popolato da una crescente minoranza di musulmani sempre più ostili nei confronti della nostra cultura. È altrettanto probabile il contrario: altri sondaggi realizzati negli ultimi anni dimostrano che con il passare del tempo l’opinione di molti musulmani nei confronti dell’occidente sta lentamente migliorando. È possibile immaginare che nel futuro i paesi arabi riusciranno finalmente a produrre regimi stabili e crescita economica e che le minoranze musulmane che si trovano nei nostri paesi inizino a condividere sempre di più i nostri valori (nostri non perché occidentali, ma in quanto valori universali – e che questi valori vengano introiettati anche da quelle minoranze di occidentali che fino ad ora ne sono rimaste più o meno immuni) fino al punto in cui diventeranno una componente stabile e integrata nella nostra società. Quello che mi fa veramente paura è vedere come abbiamo reagito noi occidentali.

In questi giorni ci sono stati molti bellissimi momenti di unità e commozione. Le piazze in Francia si sono riempite, l’hashtag #JeSuisCharlie ha fatto il giro del mondo e oggi ovunque sulle prime pagine dei giornali le vittime di Charlie Hebdo vengono celebrate come dei martiri della libertà di stampa. Ma nelle stesse ore decine di giornali e siti di tutto il mondo decidevano di autocensurarsi per paura di fare la fine del settimanale. Come era già accaduto in passato, New York Times, Associated Press, Washington Post e CNN, cioè quattro delle più importanti società di media del mondo, hanno deciso di censurare o non mostrare le vignette che probabilmente sono state la causa della strage di Parigi. L’autocensura non è una cosa che riguarda solo i giornalisti. Come ha notato Cas Mudde, su Open Democracy, vignette o altre rappresentazioni di Maometto sono state censurate in passato dai due principali show satirici degli Stati Uniti: “The Colbert Report”, condotto da Stephen Colbert, e la serie animata “South Park”. Entrambe le trasmissioni non avevano mai risparmiato sulla satira al cristianesimo.

Il risultato della strage sarà rendere più o meno frequenti gli episodi di autocensura? Il 7 gennaio è stata data una dimostrazione pratica di quello che può accadere a scherzare sulla religione. È possibile che con un moto d’orgoglio l’opinione pubblica mondiale si scuota di dosso le sue paure e decida di non accettare più limiti alla libertà di espressione. Ma è altrettanto possibile il contrario. Se per me è facile ignorare il timore per la mia incolumità, per altri colleghi – molto più in prima linea di me – non è così semplice. Il mondo non è fatto di eroi, ma di persone normali, con le loro debolezze ed incertezze che forse oggi più che ieri decideranno che è meglio non rischiare la vita per un disegno o per una critica corrosiva. A quel punto non ci vorrà molto (come ha notato Giovanni Fontana, sono bastate poche ore in alcuni casi) perché una grossa fetta di coloro che oggi scrivono #JeSuisCharlie comincino a chiedersi perché quello che non si può fare nei confronti dell’islam lo si può fare nei confronti del cristianesimo. Già oggi esistono molti musulmani e cristiani che condannano la violenza, ma allo stesso tempo sostengono la necessità di mettere limiti alla critica della religione. Non è impossibile immaginare in un futuro prossimo un politico che proponga di introdurre delle leggi contro il vilipendio della religione trovandosi così tra le mani tanto i voti degli estremisti islamici quanto di quelli cristiani. Sarebbe un mondo meno libero, che poi alla fine è esattamente quello che vogliono i terroristi.

Davide De Luca

Giornalista. Ho scritto per l’Arena di Verona e per l’Agence Europe di Bruxelles. Ho collaborato ad alcuni libri d’inchiesta su CL e la finanza cattolica. Mi piacciono i numeri e l’economia e cerco di spiegarli in modo semplice. Su Twitter sono @DM_Deluca