Matteo Renzi non ha perso i ballottaggi

Poco dopo l’una di ieri notte, quando i risultati del ballottaggio alle amministrative erano divenuti oramai chiari, il segretario del PD Matteo Renzi ha cercato di minimizzare la portata della sconfitta. Su Facebook ha definito i risultati a «macchia di leopardo», ha scritto che «i candidati contano più del dibattito nazionale nello scegliere un sindaco», e che «le elezioni amministrative sono un’altra cosa rispetto alle elezioni politiche».

A prima vista sembrano dichiarazioni assurde. Il centrosinistra governava sedici comuni capoluogo sui 24 andati ad elezioni. Oggi ne è riuscito a mantenere o riconquistarne appena sette. Ha perso in città come Genova, Pistoia, Carrara, L’Aquila e Sesto San Giovanni, comuni dove vinceva da mezzo secolo. Dove ha ottenuto un buon risultato, difficilmente gran parte del merito può essere ascritto al partito. A Padova, la città più importante ad essere riconquistata, la prima cosa che il nuovo sindaco Sergio Giordani ha voluto sottolineare dopo la vittoria è che non ha una tessera del PD.

Le elezioni, quindi, sono state un disastro. Ma sono state un disastro per il PD, non per il suo segretario. Renzi ha perfettamente ragione quando dice che le amministrative sono diverse dalle elezioni nazionali: nel senso che uno scarso risultato alle prime non si riflette necessariamente sulle seconde. Renzi è probabilmente ancora oggi l’uomo politico più abile a raccogliere consenso personale su larga scala – all’interno del PD è addirittura senza rivali, come hanno dimostrato le ultime primarie – e si può tranquillamente dire che il suo futuro di uomo politico non è legato a chi governa a Genova o Sesto San Giovanni.

Per sopravvivere, Renzi sa benissimo cosa gli serve: ha bisogno che alle prossime elezioni PD e centrodestra raccolgano abbastanza da voti da rendergli possibile la formazione di una larga maggioranza parlamentare. Paradossalmente, meglio va il centrodestra, meglio è per Renzi, almeno fintantoché il PD mantiene i suoi consensi intorno al 30 per cento.

Anzi, un centrodestra ampio e variegato sarà ancora meglio per Renzi, che con un po’ di fortuna potrà ripetere quello che ha già fatto durante il suo primo governo: spaccarlo e portarsene via un pezzo con cui governare per altri due, tre, quattro, forse cinque anni. Per questo i risultati del ballottaggio non sono un male per lui. Il centrodestra sembra in salute? Ottimo: vorrà dire che ci saranno più parlamentari con cui allearsi. Una vittoria del Movimento 5 Stelle era l’unico risultato che Renzi temeva davvero, ma, come ampiamente previsto, da quelle parti si è verificato il disastro che tutti si aspettavano.

Il futuro del Partito Democratico, però, è tutto un altro discorso. Perdere le amministrative nelle sue storiche roccaforti è il sintomo di una grave malattia. Il partito un tempo egemone sul territorio sembra aver perso la sua capacità di produrre una classe dirigente locale. È una malattia che si era già ampiamente diffusa ai tempi di Bersani, ma Renzi di certo ha fatto poco per cercare di guarirla.

Renzi fa abilmente i suoi interessi di uomo politico, interessi che spesso sono di breve o brevissimo termine. Così facendo però ha finito col lasciare in secondo piano l’agonia di un partito in grave difficoltà. Ancora oggi Renzi fatica a fare la minima autocritica di fronte a questa situazione. Perdere Genova, Pistoia e Sesto San Giovanni vale a malapena una menzione sulla sua pagina Facebook. È un cambiamento notevole per un uomo politico che ha fatto una bandiera del suo essere stato un amministratore locale, che scelse venti sindaci da mettere ai vertici del partito, che annunciava di voler diventare il “sindaco d’Italia”.

La domanda più interessante, quindi, non è se Renzi ha vinto o perso queste amministrative. Chi guarda a qualche anno più avanti delle prossime elezioni dovrebbe cominciare a chiedersi se il Partito Democratico riuscirà a sopravvivere al suo segretario o questi anni di incuria si riveleranno fatali. Difficile che qualcuno oggi abbia una risposta, ma se questa fosse un “no”, se il destino inevitabile fosse la trasformazione del PD in un comitato elettorale del segretario di turno, difficilmente questo risultato potrà essere considerato un bene per il paese. Non esistono sane democrazie occidentali senza un forte partito socialdemocratico, strutturato e radicato sul territorio. Dove questi partiti stanno sparendo, la loro crisi ha aperto le porte ai peggiori populismi di destra, in confronto ai quali la Lega Nord e il Movimento 5 Stelle appaiono partiti moderati ed equilibrati.

Queste elezioni sono state un grido d’allarme. Non per Renzi, il cui futuro politico è ancora aperto e pieno di possibilità, ma per le migliaia di attivisti e dirigenti del Partito Democratico e, sul lungo periodo, per l’intero paese. I prossimi mesi ci diranno se qualcuno a questo grido intenderà rispondere.

Davide De Luca

Giornalista. Ho scritto per l’Arena di Verona e per l’Agence Europe di Bruxelles. Ho collaborato ad alcuni libri d’inchiesta su CL e la finanza cattolica. Mi piacciono i numeri e l’economia e cerco di spiegarli in modo semplice. Su Twitter sono @DM_Deluca