Le ragioni economiche della riforma costituzionale

La riforma economica più importante non è il Jobs Act o la trasformazione delle Banche Popolari in SpA, ma la riforma costituzionale. Può sembrare un paradosso, o una provocazione. Al contrario, senza sminuire l’importanza delle misure strettamente economiche, uno sguardo d’insieme agli ultimi vent’anni e una lettura delle più recenti, e celebri, conclusioni della scienza economica portano a questa conclusione.
La malattia economica dell’Italia è ormai molto lunga. Come la famosa rana che rischiava di rimaner bollita mentre le si aumentava pian piano la temperatura dell’acqua in cui nuotava, l’Italia ha sofferto di declino economico lento ma inesorabile dalla fine degli anni ’90. Gli economisti se ne sono accorti attorno al 2005, la politica ci ha messo più di un altro lustro limitandosi all’inizio a provvedimenti emergenziali per evitare il default, era il 2011/2012. Tuttavia, senza comprendere che le ragioni del declino sono di lungo periodo, ogni strategia economica rimane miope: non si tratta solo di una congiuntura, al contrario, la congiuntura ha aggravato una situazione già duramente indebolita. Indebolita, ci spiegavano le principali ricerche già dal 2005, per carenza di innovazione.

Ci soccorrono allora i lavori di Acemoglu e Robinson, culminati nel loro “Perché le nazioni falliscono” (Il Saggiatore 2013). È una lunga tradizione, quella istituzionalista, di cui questo lavoro è solo una delle propaggini, anche se forse la più celebre perché pone al centro dei successi – e degli insuccessi – di lungo periodo le istituzioni politiche ed economiche delle nazioni. Allora guardiamo agli ultimi vent’anni da noi: l’impianto istituzionale italiano, combinato con l’evoluzione europea e globale dell’economia, ha prodotto un sistema politico centrato sulle rendite di posizione, sui monopoli di potere territoriale che hanno reso l’elite politica sostanzialmente inamovibile per circa quattro lustri. La politica ha così esercitato una formidabile capacità di escludere, piuttosto che includere, i cittadini sia dalle istituzioni che dal successo economico e personale.

Lo stesso successo della retorica odiosa e antidemocratica della “Casta” si è nutrito del potere improprio di interdizione che la politica ha esercitato sull’economia, proprio mentre il resto del paese, quello non protetto politicamente, veniva invece molto esposto ai venti spesso gelidi del mercato.
Spiegano Acemoglu e Robinson, che quando la nazione, e il suo sistema economico, non premiano chi è più bravo, ma chi è fedele al suo clan, quel sistema si impoverisce perché non incentiva le persone a innovare, ma a cercare fortuna in altro modo. Dunque è necessario, per stimolare innovazione e crescita, aumentare trasparenza, responsabilità, contendibilità del potere e indebolire la possibilità di costruire cordate e gruppi ristretti che, per loro natura, si giovano di opacità e mancanza di controllo.

Si colgono allora le implicazioni economiche, di lungo periodo, delle riforme in discussione alla Camera. Infatti i quattro principali macro-capitoli, hanno sia individualmente che complessivamente l’effetto di aumentare responsabilità politica e trasparenza, dunque diminuire la capacità di coltivare e nutrire sacche di rendita dove conta la fedeltà più della bravura e della voglia di innovare.
Il monocameralismo, un numero minore – dunque più autorevole, ma più controllabile – di parlamentari, un chiaro vincitore alle elezioni, una più razionale distribuzione di poteri tra territori (il famoso Titolo V), la riduzione di enti dalle funzioni incerte (il CNEL) sono cambiamenti che asciugano e rendono più trasparente il sistema politico.
Governi più stabili e più forti infatti sono un deterrente per rendite di posizione autoreferenziali che, invece, si nutrono di instabilità, incertezza, confusione tra ruoli di governo e opposizione. La riforma costituzionale rafforzando responsabilità e trasparenza, taglia il potere “estrattivo” dei partiti, aumentando contemporaneamente la loro necessità di essere “inclusivi” di quanti più cittadini possibile per vincere le elezioni, o conservare il consenso conquistato. Questo naturalmente ha un valore democratico intrinseco, che è l’aspetto più importante, ma anche un effetto economico di lungo periodo decisivo per un paese in debito di crescita come il nostro.

Marco Simoni

Appassionato di economia politica, in teoria e pratica; romano di nascita e cuore, familiare col mondo anglosassone. Su Twitter è @marcosimoni_