Contro Penati la ragione etica o la ragion politica?

Io non so se Filippo Penati sia colpevole. Mi pare chiaro che a Sesto ci fosse un sistema di corruzione, ma oltre questa evidenza non mi fido ciecamente di alcun magistrato. Capisco l’esigenza di chi nel Pd vorrebbe che Penati rinunciasse alla prescrizione. Io però non sarei capace di chiedere ad alcun imputato di rinunciare a uno strumento di difesa.

Il caso dell’ex braccio destro di Bersani si configura come un amaro conflitto fra il diritto individuale e la ragion politica, che in questo momento e in questa occasione fa apparire intollerabile il ricorso a strumenti di difesa previsti dalla legge e quindi – qualsiasi giudizio se ne dia – disponibili per tutti.

La ragion politica che muove i dirigenti del Pd (o meglio: alcuni dirigenti del Pd, però fra loro la presidente del partito e il vicesegretario) è importante. La prescrizione a beneficio di Penati vorrebbe dire non sapere mai più se l’ex sindaco di Sesto, ex presidente della provincia di Milano ed ex capo della segretaria di Bersani era complice o meno di un sistema di tangenti. Una macchia sulla sua onorabilità, ma soprattutto una spada di Damocle pendente sul Pd e sul suo segretario, che di Penati si era fidato. Di qui la richiesta di Bindi, Letta e altri, rafforzata dall’opposizione che fece il Pd alla leggina berlusconiana che ha reso più facile il verificarsi della prescrizione.

Io capisco questa linea. Se fossi un dirigente politico forse la assumerei, per difendere il partito dalla ripulsa che scatta nei confronti di qualsiasi inquilino del Palazzo che usufruisca di benefici. L’asticella etica nel centrosinistra è poi altissima: anche solo l’ombra del sospetto causa un danno triplo di quanto accade nel centrodestra. Si tratta però di un meccanismo abbastanza infernale. Un conto è se un politico vi si oppone, come ha sempre fatto Berlusconi e come hanno provato a fare tutti i suoi uomini nel tempo finiti all’osservazione delle procure: la sua fortuna dipende non tanto dalla serietà delle accuse quanto dalla forza politica del momento, dal peso del politico coinvolto e dalla qualità dei suoi avvocati.

Se però – come nel caso di Penati – si accetta la regola, obbligatoria nel Pd, di fare il famoso “passo indietro”, fino a dove si deve arretrare? Via dagli incarichi pubblici, ok. Via dagli incarichi di partito, ok. Via dallo stesso partito, con l’autosospensione, ok. Ma quando si arriva alla difesa di se stessi come persona, a quel punto spogliata del ruolo pubblico, gli altri hanno ancora il diritto di chiedere passi indietro, rinunce, esposizioni oltre il dovuto di legge?
Non lo so. Non ho particolare simpatia per Penati, anche se il suo coinvolgimento mi ha sorpreso. Penso, come a quanto pare anche altri, soprattutto a Milano, che la sua concezione tradizionale di partito di funzionari e militanti possa essere più rischiosa, dal punto di vista di possibili deviazioni, rispetto a un’idea di partito aperto “degli elettori”. Ma non è sicuramente il caso di aprire la discussione in questo momento: ogni tesi diventerebbe una possibile strumentalizzazione.

Preferirei che il cittadino Penati fosse lasciato libero di difendersi come meglio crede. Anche con la prescrizione del reato, se lui lo ritiene, con l’ovvio corollario dell’uscita definitiva dalla politica.
Rimane infine un dubbio, anzi due.

Il primo è che nel Pd possa tornare a scorrere un po’ di veleno sotterraneo sul tema della continuità con le storie passate. Si avverte un filo di rivalsa da parte di chi in passato, su altre vicende, s’è sentito trattato da paria morale, diciamo da “democristiano”. E si avverte all’opposto un istinto di difesa “di partito”, laddove però per partito non si intende l’attuale bensì quello di provenienza.

Il secondo dubbio riguarda Bersani. Ai complotti giudiziari non credo, anzi non credo ad alcun complotto. Neanche alle coincidenze, però. E mi lascia perplesso che nel giro di poche settimane si siano scoperti gli altarini di persone lontane fra loro nello spazio e nel tempo, accomunate solo dalla trascorsa vicinanza al segretario del Pd. Non lo scopriamo certo oggi che nella magistratura, non per dolo ma per autocombustione, ogni tanto scoppino, diciamo così, delle “mode”.

E anche esprimere questo dubbio è una libertà che mi prendo da non-dirigente di partito: di questi tempi loro, se anche condividessero la perplessità, non potrebbero confessarla neanche allo specchio.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.