Una cosa che Renzi non cambierà

Alla fine, par di capire che se Matteo Renzi e Susanna Camusso non si fossero scontrati sul Jobs Act, in Emilia Romagna sarebbe andato a votare un venti per cento in più di elettori. Tutti per Stefano Bonaccini, si intende, che avrebbe così surclassato il suo predecessore Errani, e oggi staremmo tutti senza eccezioni a commentare un altro clamoroso successo del Pd.

Mentre invece stiamo commentando non si capisce bene che cosa. Una mezza sconfitta, a quanto pare dal clima che si respira, più che, casomai, una vittoria dimezzata. Intanto si tratta di un’analisi del voto decisamente approssimativa, discutibile.
In un’epoca di voto libero, fluido, sganciato dalla fedeltà, una penalizzazione così massiccia legata a un singolo conflitto politico fa presupporre una capacità di orientamento (per non dire di organizzazione) che francamente la Cgil non ha, neanche in Emilia. E questo valga come apprezzamento, ché se dovessimo pensare che i gruppi dirigenti della sinistra sindacale abbiano davvero scientemente manovrato per abbattere domenica la partecipazione al voto, saremmo sul limitare di un delitto contro la democrazia.

Per di più, chi valuta il risultato del Pd in questo modo, sgancia completamente il ragionamento da quanto è avvenuto negli altri segmenti elettorali. Come se fossero bacini non comunicanti, cosa che notoriamente non è. Forza Italia che precipita, Cinquestelle che torna al via, Sel esangue, la stessa Lega nord che prende in fondo meno voti assoluti di quanti ne prese nella medesima Emilia Romagna solamente quattro anni fa: con chi devono prendersela questi partiti, sempre con Renzi e Camusso? O non sarà più probabilmente in corso un fenomeno più ampio, trasversale, sintomatico di una passivizzazione degli italiani molto oltre le loro convinzioni politiche, per non dire di ciò che pensano del Jobs Act?

Ridimensionato l’effetto-articolo 18, esso va comunque preso in considerazione. Per porre un’altra domanda: se Renzi avesse previsto che le sue riforme avrebbero causato l’allontanamento di una fascia di elettorato di sinistra più tradizionale, si sarebbe dovuto fermare? Avrebbe dovuto accettare i condizionamenti di chi, in verità, del Jobs Act e della legge di stabilità ha respinto tutto, non solo qualche articolo qua e là? Pur essendo convinto della bontà del suo progetto, l’avrebbe dovuto mutilare per evitare l’indebolimento di Bonaccini (che è comunque da ieri presidente dell’Emilia Romagna a tutti gli effetti e con pieni poteri)?

Il ragionamento non sta in piedi. Non solo cozza col carattere di Renzi – che può non essere gradito, ma difficilmente cambierà e comunque è parte integrante del successo dell’uomo – ma fa a botte con una concezione limpida della politica, del conflitto, della democrazia. Che cosa vuol dire «non si accendono fuochi con la Cgil»? Casomai va evitato di accendere fuochi con i cittadini, e questo sarebbe un discorso interessante da fare a proposito dello stile e dei contenuti della politica renziana. Perché invece prendere l’iniziativa, portarla fino in fondo, accettarne i rischi ed eventualmente pagarne i prezzi: questa è una etica della responsabilità politica e personale che evidentemente non riesce ad affermarsi nella politica dell’aggiustamento e delle compatibilità sempre tutte da rispettare e omaggiare.

E infine, se si critica il premier per l’accesa conflittualità delle ultime settimane e non si dice una parola sul trattamento che Camusso e Landini hanno riservato al suo governo (come neanche a quelli di Berlusconi), l’intera impalcatura scricchiola per eccesso di parzialità. Non c’è dubbio che Renzi non debba fare troppo il disinvolto col voto degli italiani, che è la sua unica base di legittimazione. Fa bene a ricordare che gli elettori sono tutti eguali – quelli che hanno fatto vincere il Pd non meno importanti di quelli che hanno deciso di non votarlo domenica scorsa – ma è troppo abile e attento agli umori degli italiani per non cogliere l’eccesso di ansia che li percorre e che comincia a dominarli. Dunque possiamo aspettarci qualche aggiustamento del messaggio renziano. Una maggiore attenzione all’inclusione, forse. Ma un cambio di rotta o un ammorbidimento sulle sue riforme, più di quanto non sia già stato fatto in parlamento, questo sicuramente non lo vedremo.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.