La zona grigia

Sto studiando da un po’ con curiosità gli sviluppi contemporanei di quella parte di contenuti giornalistici che un tempo erano chiamati “pubbliredazionali” e oggi sono diventati una cosa molto più complessa e importante all’interno dei quotidiani. Diciamo che il settore in generale è “zona grigia in cui non si distingue esattamente il contenuto giornalistico da quello pubblicitario”. Un tempo, con i testi “pubbliredazionali” la distinzione era più chiara: c’era scritto, intanto; e poi la grafica era più triste o comunque diversa, e il contenuto formalmente riconoscibile, una specie di comunicato stampa con toni molto promozionali.

Oggi i quotidiani sperimentano sempre di più pagine “speciali” dedicate a eventi o prodotti, in cui l’incentivo promozionale non è quasi mai indicato e dove si mescolano 1. pubblicità tradizionali, 2. articoli che descrivono i prodotti, graficamente indistinguibili dagli articoli canonici del giornale, 3. articoli “a tema”, spesso di firme autorevoli del giornale e anche di contenuto interessante e qualitativamente valido per il lettore: ma ispirato dal prodotto che lo speciale promuove.

Sui quotidiani maggiori, avrete visto spesso quelle doppie o quadruple pagine dedicate a mostre o a “Eventi”, in cui lo sponsor di tali mostre ed eventi è ben segnalato nelle titolazioni e nei testi; o di recente, il notevole inserto di Repubblica dedicato genericamente al “tempo” con articoli di illustri autori, molte pagine di recensioni (naturalmente non critiche) di orologi e moltissime di pubblicità di orologi.

Attenti, che non vorrei essere equivocato. Ci sono due temi: uno è la chiarezza e la correttezza con i lettori. È importante. È quello per cui ci aspettiamo di sapere quali ragioni sottendono alla scelta, alla scrittura e alla pubblicazione di un articolo, per poterlo valutare obiettivamente e in modo informato. È quello che imponeva un tempo di scrivere “pubbliredazionale”. Ed è oggi del tutto ignorato: quasi nessuno degli inserti e speciali ha mai indicazioni che dicano al lettore che è stato fatto per ragioni promozionali, più o meno dirette (sono pagine pagate? sono pagine frutto di un accordo generale con l’inserzionista? sono pagine fatte per compiacere un inserzionista?). Ed è una chiarezza che prescinde dal contenuto: che spesso è una sfacciata marchetta assolutamente inaffidabile e altre volte è un buon articolo la cui parzialità è data soltanto dalla scelta della sua pubblicazione. In ogni caso, io vorrei saperlo, se quell’articolo è lì perché la riunione di redazione ha deciso che c’era una notizia, o perché lo ha deciso il marketing. Lo troverei corretto.

Un secondo tema è più contemporaneo e più delicato: ed è quello delle forme e dei compromessi che può raggiungere questa nuova categoria dell’informazione. Che se è chiarita nella sua natura, non è né una marchetta né una pubblicità, ma una nuova delicata zona grigia. Cos’è, quell’articolo di Rampini sul tempo che introduce lo speciale sugli orologi? E quello di Smargiassi? E quello di Maurizio Porro sui divani nel cinema che guarnisce lo speciale sul museo della poltrona Frau? Come dobbiamo giudicarli, come dobbiamo leggerli? Sono buoni pezzi, potrebbero stare e farsi leggere in un magazine o un allegato; ma se sono lì è per arricchire la promozione dell’inserzionista. Sono marchette di qualità, mi perdonino gli autori per la formula che non vuole essere offensiva.

Ho parlato con persone molto diffidenti e indignate di questa che pensano una rischiosa o già pericolosa deriva. Ma ho anche parlato con persone più indulgenti e pragmatiche. Quegli speciali, gli inserzionisti li chiedono con molta frequenza e insistenza. Rendono, direttamente o indirettamente. E sono tempi difficilissimi per la pubblicità sui giornali. E sono anche tempi in cui l’informazione sta cambiando molto e la confusione dei contenuti, giornalistici e non, è una tendenza già molto sviluppata. Se vi fermate a pensarci – i lettori di questo blog lo sanno – ci sono già sui giornali cose molto meno “notizia” e molto più inaffidabili e parziali di quelle che possiamo leggere in quegli speciali. Da dove la vedo io, oggi sui giornali fa più danni lo sdoganamento del sensazionalismo, del terrorismo, delle storie non verificate, delle non notizie, che non gli articoli promozionali, tutto sommato riconoscibili.
Certo, ogni volta che un giornale o un autore concede se stesso a formule di questo genere, cede un po’ della sua credibilità, non c’è dubbio. Bisogna vedere se ne ha un patrimonio sufficiente da poterla scalfire senza grandi danni, oppure no.

Insomma la questione è complessa e vale la pena affrontarla laicamente, o almeno parlarne. Chi si indigna preventivamente provi a mettere in conto l’ipotesi – per niente remota – che i maggiori quotidiani debbano chiudere, se rifiutassero di scendere a questi compromessi. Chi è invece più tollerante, però, sappia che la chiarezza e la correttezza di cui sopra, quelle sì che sono indiscutibili. In fondo – buffa storia – ieri l’ordine dei giornalisti ha sospeso due direttori di un giornale che aveva violato proprio questa regola:

il Consiglio ha ritenuto che i loro comportamenti  siano stati in violazione dei doveri deontologici del giornalista, il quale ha l’obbligo di essere e di apparire indipendente, non può occuparsi di pubblicità né di informazione a pagamento e deve garantire la massima trasparenza al fine di consentire al lettore di comprendere quando vi sia una contropartita economica per la pubblicazione di una notizia.

La cosa buffa è che il giornale condannato è il Messaggero di Sant’Antonio.


Vedi anche:

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).