La gente come noi

Gli slogan del Movimento 5 Stelle sui cittadini, la gente, le persone normali contrapposte alle “caste” o alla politica dei professionisti – la “mediocrazia” –  rendono di nuovo attuale un capitolo del mio solito libro di due anni fa. Roba lunga, eh.

Mia figlia settenne un giorno è tornata da scuola con una fotocopia che mi ha consegnato: «È per la mensa». Era un foglio A4 con una grossa intestazione in caratteri maiuscoli.

REFERENDUM: LASAGNE SÌ, LASAGNE NO!

Il testo veniva dalla grande azienda del Comune di Milano che si occupa della ristorazione nelle scuole cittadine (ristorazione ripetutamente vituperata da bambini e genitori). Dopo il proclama con tanto di punto esclamativo, si spiegava che «nonostante i nostri dati rilevino che questo piatto è tra i più graditi dai bambini (gradimento al 77,87 per cento)» alcuni genitori avevano protestato contro due¹ successivi ritrovamenti di «cotenna bovina» nelle suddette lasagne nel 2009 e nel 2010 (una roba pelosa, ho saputo poi). «Vogliamo sottolineare che nella preparazione delle lasagne può accadere che una piccola parte di cotenna sfugga anche ai controlli più attenti e puntuali, perché non esistono dispositivi capaci di rilevare tali elementi». «Va sottolineato comunque che, fatto salvo la sgradevolezza del fatto, tutto ciò è assolutamente irrilevante dal punto di vista igienico-sanitario.»

Ho ripiegato il foglio. La mia prima curiosità è andata al percorso, alla mia ignoranza sconosciuto, compiuto dalla cotenna bovina per arrivare nel piatto di lasagne di mia figlia: roba di ragù, immagino. Ma il pensiero che ha preso il sopravvento è stato un altro: un referendum sulle lasagne? Una società alimentare pubblica che rimanda agli utenti la responsabilità di decidere cosa sia saggio dar da mangiare ai propri bambini, malgrado la società sostenga di avere dati sicuri sulla rarità dell’evento, sulla sua irrilevanza, e sul fatto che i bambini siano soddisfatti («77,87 per cento»)? La democrazia diretta applicata alle lasagne? Che affidabilità possono avere organismi rappresentativi (la società è del Comune) a cui abbiamo dato deleghe specifiche e che piuttosto che fare una scelta di qualunque tipo restituiscono quella delega?

Voi direte, vabbè calmati: trattasi di lasagne. E infatti ho messo il foglio in un cassetto e me ne sono dimenticato, delle lasagne (ho poi saputo che ha votato la metà degli aventi diritto, e che hanno vinto le lasagne col 62,7 per cento di voti favorevoli). Ma è dalle lasagne che partono la perdita di ruolo e responsabilità degli organismi deputati a difendere la nostra vita quotidiana, e la simmetrica invadente richiesta di democrazia diretta. Se le classi dirigenti sono fatte di persone «come noi» e la loro unica impostazione è la demagogia, è chiaro che da una parte ci chiederanno di scegliere (sulle fesserie) e dall’altra noi pretenderemo sempre più di scegliere: siamo come loro. E quindi raccolte di firme, referendum, pretese di supplenza dei rappresentanti che noi stessi abbiamo scelto ma che non consideriamo all’altezza.

 

Nell’antielitismo siamo diventati un paese all’avanguardia e solo gli Stati Uniti stanno al passo con noi (soprattutto grazie allo scatto di Sarah Palin, che sennò ce li eravamo bevuti). In Italia il presidente del Consiglio più votato e longevo degli ultimi vent’anni è un signore che – trascuriamo per il momento la valutazione delle sue eventuali capacità politiche accessorie – ha ottenuto voti e consenso sulla base del fatto che è partito dal nulla, ha guadagnato un sacco di soldi ed è simpatico e di modi e battute spicci. Non ha niente dell’intellettuale, non ha niente del colto, non aveva nessuna esperienza politica. Ha – per i suoi fan – qualità umane ed esibito buonsenso. Non risulta sia esperto di niente: qualche volta – come quando provocò le dimissioni di Zoff – ha manifestato una pretesa competenza di calcio, altrimenti esprime giudizi e interesse soprattutto verso le donne. Soldi, calcio e donne: di questo si occupa, come la maggioranza dei maschi italiani. Tutto il paese lo chiama per nome di battesimo, e lui è bravissimo esattamente nello spacciarsi per italiano medio e guadagnare indulgenti simpatie ovunque vada. Fa le corna nelle fotografie di gruppo, racconta barzellette. Non fa niente per farci pensare di «essere migliore di noi», anzi.

Ma una rondine non fa primavera, e voi direte che Berlusconi non è semplicemente «una persona qualunque» diventata capo dell’Italia ma rappresenta un caso ben più singolare e complesso. E allora guardiamo il resto del panorama politico. I partiti di Berlusconi hanno portato in parlamento una ricca schiera di persone qualunque, di quelle da incontrare al bar o andare a farsi una birra: curriculum politici inesistenti, sorrisoni e pacche e strette di mano.
Persone qualunque con l’attrattiva supplementare di avere avuto successo in campi accessibili e frequentati: in pubblicità o in palinsesti nazionalpopolari, facendo gli avvocati, i piazzisti o le veline. Una è diventata consigliere regionale per avere curato i denti di Silvio Berlusconi, a un certo punto, ed è stata poi accusata di gestire le sue feste poco edificanti. Per chi invece è irritabile e invidioso di questi successi da parvenu, c’è l’offerta della Lega, che ha una sua coerenza: del sentimento «antipolitico» e anti-cultura la Lega ha fatto uno dei suoi cardini, e ha fatto eleggere centinaia di persone della porta accanto, molte delle quali hanno portato il loro essere «ordinarie» alle estreme conseguenze: esibendo ignoranza, aggressività, prepotenza, come doti riconoscibili e condivise dai loro elettori. Dal 2009, poi, il populismo antielitista ha trovato il suo campione e la sua perfetta declinazione nella figura del ministro Renato Brunetta, che da qualche anno andava costruendosi questo ruolo con grande spontaneità.

«(…) Radical-chic, sinistra al caviale: mi fanno un baffo. Certo, un tempo ci soffrivo. Poi ho imparato ad accettarmi. Sono orgoglioso di essere figlio di gente povera. Figlio della Venezia popolare. Ha presente Thomas Mann e Visconti? La Venezia letteraria, crepuscolare? Ecco, tutto il contrario.
Da bambino andavo a vedere i siori che mangiavano il gelato a San Marco. Soldi per i gelati io non ne avevo.
Andavo a pescare i granchietti e le anguelle, quei pesciolini trasparenti, da fare fritti. E andavo a lavorare con mio padre.»Venditore ambulante di protesi, è stato scritto. «Ma quali protesi. Gondoete.»Prego? «Gondole di plastica nera. Vetri di Murano. Souvenir. Avevamo una bancarella in lista di Spagna, accanto alla stazione. E lì, sui marciapiedi di Cannaregio, ho imparato tutto. Il lavoro, il sacrificio. Conoscere la gente, parlarci.» «Vivevamo in nove in novanta metri quadri, con i miei due fratelli, mia zia vedova e i suoi tre figli. In affitto tutta la vita.»²

Ci sarebbe dentro già tutto, un manifesto politico: il disgusto per la «sinistra al caviale», l’orgoglio delle radici povere in quanto tali, la presa di distanza dalla grande letteratura, l’invidia per i «siori», la retorica del lavoro presunto «vero» e della «gente», la rivendicazione di modestia economica, la zia vedova. Ma il repertorio di antiintellettualismo di Brunetta si è arricchito nel 2009 di ulteriori interventi:

«Roberto Rossellini aveva il braccino teso e poi il pugno chiuso, prima si faceva dare i soldi dal regime e poi ha cambiato idea.»
«Parassiti, gente che ha preso tanti soldi e ha incassato poco al botteghino. Gente che non ha mai lavorato per il bene del paese, anzi, gente che non ha mai lavorato. Andate a lavorare. Confrontatevi con il mercato. Questo è un pezzo d’Italia molto rappresentata, molto placida. Questa è l’Italia leggermente schifosa» (parlando dei registi e del cinema italiano al Festival di Venezia: la battuta è riferita in particolare a Michele Placido).
«È un popolo minoritario che ha tanta forza e tanto tempo per farsi rappresentare in maniera potente. È l’Italia peggiore, l’Italia sporca. Noi siamo gli eversori di questo ordine di cose, siamo gli smontatori di questa Italia radical-chic, di questa borghesia autoreferenziale di merda.»
«La povera sinistra sarebbe nata con altri scopi e invece si fa condizionare da un’élite di merda.»
«I parassiti degli enti lirici, i finti orchestrali, i cantanti, tutti quelli che erano abituati che a pagare era Pantalone.» «L’autoreferenzialità intellettualistica, specie se fatta coi soldi di Pantalone, mi dà l’orticaria.»
«Ci sono élite irresponsabili che stanno preparando un vero e proprio colpo di Stato.»
«Sono un uomo del popolo e penso che il potere sia nel popolo. Per questo quando vedo questi conati salottieri non mi preoccupo più di tanto.»

Brunetta è diverso da Sarah Palin. Per quanto rivendichi la sua matrice «popolare», delle élite fa solidamente parte, così come del mondo della cultura e delle classi dirigenti italiane. È un intellettuale (rivendicando poi lui stesso di essere «di sinistra», si tratterebbe quindi di un intellettuale di sinistra). Lui direbbe che infatti il suo attacco è rivolto a «certe» élite, a «certa» cultura, a «certi» intellettuali. Ma è indubbio che nel suo messaggio c’è invece una strategia demagogica che ignora queste distinzioni e mira a sovreccitare chi queste distinzioni non le fa per niente: populismo puro, che sottrae alla natura positiva del popolo solo quelle classi di statali «fannulloni» che dentro questa impostazione comunicativa sono più utili se identificati come emanazione dei soprusi dello Stato centrale che come brava gente semplice. Brunetta non è «uno qualunque», e ha competenze e precedenti da vendere: ma preferisce rappresentarsi come figlio di venditori ambulanti arrivato tra i siori a fare il castigamatti in nome di tutti noi oppressi ignoranti.

Il centrodestra italiano è quindi imbottito di antielitisti a parole o di fatto. Il 10 ottobre 2008 «Repubblica» ha intervistato il senatore Guido Paravia, coautore col senatore Angelo Maria Cicolani di un emendamento al decreto varato per il salvataggio di Alitalia. L’emendamento aveva l’intenzione di «proteggere» il commissario Fantozzi, ma si era purtroppo rivelato utile a esimere dalle loro responsabilità anche i manager di ogni crack finanziario nazionale. Messo al cospetto della sua dabbenaggine Paravia si giustificava così: «Ero del tutto inconsapevole dell’estensione di questi benefici. Io faccio l’industriale, non il giurista. E il collega Cicolani è ingegnere».³ Ma si sono candidati al Parlamento e sono stati eletti. Proseguiamo. Dall’altra parte c’è Antonio Di Pietro, che si è guadagnato notorietà ordinando arresti, e ulteriori consensi guidando il trattore e parlando un italiano indipendente, come quello di molti dei suoi compatrioti. Dentro il Partito democratico, impermeabili a ogni cambiamento sia buono che cattivo, hanno fatto pochi pallidi tentativi di adesione a questa tendenza: anche se Piero Fassino è andato in tv a reincontrare la sua tata da Maria De Filippi. Ma quando Livia Turco, sempre in tv, ha dichiarato fiera di non sapere chi fosse il fotografo scandalistico e star dei rotocalchi Fabrizio Corona, ha ricevuto più critiche che per qualunque iniziativa politica della sua carriera: «lontana dal paese reale, vergogna!». Perché l’effetto collaterale della passione per le «persone normali» è un populismo anti-intellettuale che condanna come lontananza dai cittadini ogni presa di distanza dai fenomeni diffusi e di successo, per quanto deteriori essi siano. «Stare sul territorio», si è ricominciato a dire, come formula per invertire lo spostamento a destra di fasce di elettori tradizionalmente rappresentati dalla sinistra. Ma stare sul territorio non può significare accogliere e soddisfare ogni bisogno degli elettori, persino quelli inaccettabili. Non sarà scoprendo che una parte di italiani vuole cacciare gli stranieri e trovando quindi il modo per cacciarli che si farà una buona politica: «stare sul territorio» – attività di comprensione dei bisogni e ricerca di soluzioni creative e proficue – è diventato un sinonimo di demagogia: invece di starci per modificarlo e migliorarlo, il territorio, pare si debba starci per mimetizzarcisi. «Non capire la gente, ma essere la gente.»

Intervistato dal «Corriere della Sera» all’inizio del 2011 sul successo del suo programma radiofonico in cui coinvolgeva i politici ospiti in conversazioni più frivole e leggere, il giornalista Claudio Sabelli Fioretti ha detto di pensare che far raccontare loro delle barzellette potesse far parte di «un percorso di avvicinamento alla gente» e che «c’è una perfetta corrispondenza tra eletti ed elettori». Concludendo «Non so se sia un bene o un male».

Se la società degli umani seguisse i criteri dei politici, avremmo dentisti che trapanano radiatori e meccanici che scalpellano carie, parrucchieri che insegnano procedura penale e magistrati che fanno la messa in piega. Sarebbe un mondo elettrico ed estemporaneo.
Massimo Gramellini, «La Stampa», 1° ottobre 2008

Come è successo tutto questo? Un po’ alla volta.

Gli italiani non sono peggiori oggi di come erano un tempo. Né si deve risolverla limitandosi a dire che il popolo sarebbe bue, a meno di non depurare questo giudizio da ogni sospetto di presunzione intellettuale affermando quindi che siamo tutti popolo, e tutti buoi: è questo è abbastanza vero, ma lo è sempre stato.4 Invece qualcosa è cambiato. Il cambiamento vero riguarda le classi e i soggetti storicamente e spesso ingiustamente privilegiati, storicamente «illuminati» e storicamente investiti dall’obbligo di essere modello per gli altri. Venivano inevitabilmente dalle classi colte – colte quasi sempre per loro fortuna ed eredità – quelli che hanno guidato i progressi civili, culturali e scientifici del genere umano e delle nazioni democratiche; la loro educazione li aveva responsabilizzati sul loro ruolo: «da grandi poteri derivano grandi responsabilità». Sono stati gli intellettuali, i politici, i leader del passato a guidare noi popoli verso il progresso, a modellare i nostri valori e definire e insegnare le cose che riteniamo giuste. A giungere a una condivisione su cosa fosse auspicabile e cosa sbagliato e a trasmettere questi sentimenti agli altri: ovvero persone che invece non avevano avuto le fortune e i privilegi dei loro simili nelle classi dirigenti e che meritavano una qualche forma di compensazione riuscendo a diventare a loro volta modelli e leader.
Non ci piace sentircelo dire, ci sembra ingiusto e ci si prepara in gola la frase «si credono migliori degli altri». Ma la domanda è: lo sono? Ci sono persone che rispetto a determinati criteri sono migliori di altre, o no? O sì e non si può dire?
Gli italiani del passato non erano migliori di quelli di oggi. Ma le élite avevano insegnato loro ad avere vergogna dei propri difetti, delle proprie meschinità, delle proprie cattiverie. O almeno a considerarli sbagliati. Gli avevano insegnato che c’era il giusto e lo sbagliato (con molti dubbi in mezzo, ma anche diverse certezze), e se anche razzolavano male conoscevano le buone prediche.
Oggi non lo insegna più nessuno. Lo sbagliato è stato sdoganato. La mediocrità non conosce vergogna né sanzione, anzi, è sovente premiata. In Italia le classi e le persone deputate a essere modello per gli altri se la sono data a gambe, quando non hanno a loro volta preso a modello le mediocrità più comuni. I leader politici eletti non sono più persone «migliori di noi» (e votate per questo), ma uguali a noi (e se ne fanno un vanto), o persino peggiori di noi (con nostro compiacimento e rassicurazione). Se un tempo desiderare il male altrui era sanzionato da un sistema di valori trasmesso dalla cultura nazionale, oggi alcuni dei pensatori e leader di riferimento persino li promuovono, l’egoismo e il desiderio del male altrui. La mediocrità. La conservazione del peggio.

Non parlo solo della politica, sarebbe facile e già ci pensano in molti. Parlo dei giornalisti, degli intellettuali, di chi usa la televisione, degli scrittori. Di tutti quelli che parlano agli altri. Persino di certi insegnanti. Di tutti coloro che nel loro ruolo hanno il potere di stabilire modelli, e stabiliscono modelli pessimi. Facendo politica vanitosa, giornalismo mediocre, televisione insulsa, offrendo esempi vili e avidi. Per quanto voi vi crediate assolti, come diceva De André.
Quello che è successo – assieme ad altri cambiamenti che riguardano tutto il mondo e anche il rapporto con noi stessi e la nostra insicurezza pubblica e privata: ne parlo più avanti – è che coloro a cui attribuivamo con minore o maggiore convinzione una più qualificata capacità di occuparsi dei destini nostri e dell’Italia e per questo votavamo ed eleggevamo a nostri rappresentanti hanno progressivamente fatto di tutto per deludere questo investimento. Dall’unità d’Italia in poi, retaggi di vecchi sistemi di potere mai cresciuti in senso democratico e di gestioni mafiose e traffichine delle cose pubbliche sono andati radicandosi sempre di più nelle amministrazioni e sono spettacolarmente traboccati negli anni cosiddetti di Tangentopoli: quando ci siamo accorti che forse erano sì più capaci e competenti di noi, ma non c’era da fidarsi. Miravano a fregarci.5 La priorità è allora diventata un’altra, rispetto al riconoscimento delle competenze politiche e amministrative: è diventata poterci fidare, poter riconoscere meglio il potenziale inganno, ed evitare che quelli che eleggevamo non fossero una classe lontana ed estranea che curava i propri interessi e il proprio potere anche quando sapeva badare almeno in parte a quelli del paese. Ci siamo buttati su quelli che conoscevamo, che erano come noi, che ci pareva di poter tenere d’occhio o almeno che sapevamo capire e leggere meglio anche nelle loro bassezze e inadeguatezze.6 Votavamo per persone che credevamo migliori di noi, siamo passati a votare per persone che ci sembrano uguali a noi, quando non addirittura peggiori. È andata a finire che oggi i nostri rappresentanti si chiamano così perché chiediamo loro non di rappresentare i nostri sogni e bisogni, ma di raffigurare i nostri difetti. Ci «rappresentano». «Non temo Berlusconi in sé, ma Berlusconi in me», è la famosa geniale considerazione di Giorgio Gaber. E se qualcuno prova a ricostruire un discorso e una politica basati su progetti pedagogici piuttosto che demagogici gli vengono scaricate addosso con ignominia e violenza le devastanti accuse di elitarismo, presunzione intellettuale e superiorità morale.7 E a quel punto ha chiuso.

Nel 2009 è uscito un libro molto bello in cui Oreste Pivetta ha raccolto in forma di lunga intervista i pensieri di Goffredo Fofi sullo stato dell’Italia e sulla sua storia recente. Fofi usa efficacemente la formula «minoranze etiche» per definire qualcosa che somiglia alle élite che cerco di immaginare qui e per distinguerle da quelle che le hanno sostituite e dalle loro inadeguatezze. Dice Fofi che gli intellettuali sono oggi «divisi in caste, sottocaste e lobby, alle quali tutto può interessare tranne che mettere a repentaglio i propri privilegi – di nascita e di collocazione sociale conquistata – per sostenere concretamente la causa degli oppressi [Fofi aggiorna la categoria degli oppressi citando gli “oppressi della coscienza, tutte le persone che vivono in una condizione di anomia morale o di servitù materiale”: ma potete anche vedere l’Italia e le sue condizioni come l’oppresso in questione, N.d.A.]. E con “intellettuali” intendo anche i grandi pensatori che sanno interpretare i cambiamenti e aiutarci a reagire, indicare le strade possibili dell’intervento singolo e collettivo. Pochissimi lo fanno, per lo meno nel mondo occidentale dove il privilegio è assoluto». Fofi continua così: «Rompere questi meccanismi, di cui l’università offre un esempio, dovrebbe essere uno dei compiti delle minoranze etiche. Queste minoranze hanno una storia e hanno dei compiti che cambiano secondo le varie epoche».
Andando dietro a questi pensieri, si rischia di arrivare sbadatamente a concludere che sia la democrazia la radice di questo percorso inesorabile. Fino a che la democrazia era giovane e incompiuta, se ne mediavano le richieste con oligarchici interventi correttivi. I leader politici si caricavano di un ruolo di indirizzo dei bisogni di tutti: come dice Beppe Severgnini,8 si chiamano «leader» per qualche ragione: se avessero dovuto seguire quello che gli elettori chiedevano loro si sarebbero chiamati «follower». Si provava a «fare cultura» in tv, si cercava di costruire politiche illuminate e impopolari, si chiamava «missione» quella del giornalismo eccetera. Poi la democrazia – e la sua forma mercato – hanno prevalso (in altri paesi, i limiti e i principi sono stati scritti più solidamente che da noi, e resistono meglio, ma a fatica): e ora si offre solo quello di cui c’è domanda prevalente, per farsi eleggere, per fare share, per vendere giornali. O anche semplicemente per farsi adulare e apprezzare, bassa demagogia, trionfo delle vanità immediate. Nessuno vuole più essere ricordato. Ammirato, subito. Però no. Non dobbiamo concludere, andando dietro a questi pensieri, che la democrazia sia la ragione del disastro perché genera un meccanismo del consenso e rende I follower padroni dei leader. La democrazia come la apprezziamo è una cosa diversa da quella che viene predicata da molti suoi presunti protettori: conosce limitazioni e contromisure sagge contro l’abuso delle maggioranze e dei voleri popolari, che bilanciano «la storica, fisiologica propensione della democrazia a fare della medietà un valore» La nostra stessa Costituzione limita l’uso dei referendum, prevede maggioranze qualificate, «contiene» gli abusi di democrazia. Ma tutto questo è cambiato, in Italia, e non funziona più.
Era una democrazia, è diventata una demagogia.

La domanda se l’opinione pubblica, indipendentemente dalla sua composizione e dal suo orientamento, sia sempre da rispettare e obbedire non può che ammettere un’unica ragionevole risposta. La teoria secondo la quale «la voce del popolo è la voce di Dio» può essere accettata soltanto con forti riserve, poiché la pubblica opinione è un’entità variabile, che spesso, come afferma Jefferson, «cambia alla velocità del pensiero», e che dunque non può aver sempre ragione. Era forse «la voce del popolo, voce di Dio» a sostenere la schiavitù umana in una Repubblica votata alla libertà? È lampante che spesso il sommo dovere della stampa è contrastare l’opinione pubblica. James Bryce ha veridicamente affermato che «le democrazie avranno sempre demagoghi pronti ad alimentare le vanità, a solleticare le passioni e a enfatizzare i sentimenti del momento. Ciò di cui hanno bisogno sono uomini capaci di nuotare controcorrente, di denunciare gli errori commessi, di insistere con maggior forza su un problema quanto più risulta sgradito.
Joseph Pulitzer, Sul giornalismo (Bollati Boringhieri 2009)

Ancora qualche parola sull’elitismo, e sulle difficoltà a discuterne, forse insormontabili. Molti autori americani sostengono che la grande dicotomia nella politica occidentale degli ultimi secoli è quella tra l’elitismo e l’egualitarismo. Il modo migliore per illustrarla e per mostrare subito come l’argomento sia spinosissimo è incollare insieme in una sola frase quello che scrissero William Henry III, un autore liberal di pensiero piuttosto indipendente, nel suo libro In Defense of Elitism del 1994 (l’ho comprato su eBay, non si trova più, significativamente), e il commentatore conservatore Jonah Goldberg, in un articolo del 2002.
Certe cose sono migliori di altre. Certe culture sono migliori di altre. Certe cose sono più degne di essere studiate, celebrate e prese a modello di altre. Portare un uomo sulla luna non ha lo stesso valore di mettersi un osso nel naso.

Brrrr. Brividi, no? La superiorità delle culture, aiuto. La superiorità delle persone, poi. Un giorno ho provato a incollare queste parole nel social network intimo che frequento per vedere le reazioni. Brrr. Però dopo il brr, poco a poco, la discussione si è approfondita. Abbiamo capito che stabilire che certi risultati siano migliori di altri non sminuisce gli altri: quello che vince la medaglia d’oro dei cento metri è migliore degli altri, ma il secondo e il terzo sono grandissimi, per non parlare degli altri. E quindi molto di quel brrr deriva dalla fastidiosa implicazione che se qualcuno o qualcosa è «migliore», gli altri sarebbero «peggiori». E deriva da un’erronea estensione assoluta della soggettività del giudizio: come se ogni cosa possa essere questione di gusti, persino la valutazione se sia più importante, migliore, un progetto che porti un uomo sulla luna o uno che lo renda in grado di intrecciare dei cestini di vimini. Persino la comprensione di cosa sia giusto e cosa sbagliato: questione di gusti.

C’è un’altra confusione: tendiamo a temere che una condivisione dell’idea che ci siano progetti, risultati, persone, migliori rispetto a determinati obiettivi, comporti anche l’obbligo di una condivisione su quali siano questi progetti, risultati, persone migliori, e che rischino di non essere i nostri: come quando non si accetta la gara per paura di perderla. Invece è esattamente qui che interviene il dibattito, il confronto tra opinioni, la battaglia politica, in cui la vittoria delle idee migliori e più efficaci è esattamente auspicabile: il disastro si verifica quando si pretende di eludere il campo di discussione, di rimuovere l’eventualità che certe idee siano migliori di altre e certe persone più degne di metterle in pratica. E i criteri diventano altri, che niente hanno a che fare con la qualità e l’efficacia. Mettiamola così: ve la sentite di dire che Tony Blair è migliore di Lamberto Dini, o che Lamberto Dini è migliore di Tony Blair, quando si tratti di governare una democrazia? O che uno è migliore tra Silvio Berlusconi e Barack Obama? Se avete risposto di sì, qualunque sia la risposta, vuol dire che la renitenza a definire alcune persone migliori di altre ha a che fare con un pudore nei confronti di chi riceverebbe la patente di «peggiore» (pudore che non sussiste quando il peggiore ha le spalle larghe abbastanza da non scatenare alcuna compassione, come in questo secondo esempio). Se avete risposto no, perché direste «più adatto» e non «migliore», la questione è meramente linguistica: una correttezza politica, anche legittima se volete, ma sulla sostanza siete d’accordo. Siete degli elitisti.

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1 I casi erano sette, in realtà.
2 Da un’intervista di Aldo Cazzullo sul «Corriere della Sera», 15 giugno 2008.
3 Alla fine del 2010 il governo Berlusconi superò vittoriosamente un voto di sfiducia che pareva potesse essere il suo precoce funerale, grazie a un vantaggio di appena tre voti sopraggiunti con piccoli mercanteggiamenti degli ultimi giorni che portarono alla ribalta alcuni parlamentari che nessun italiano aveva mai sentito nominare. Quei parlamentari – sotto i riflettori per diversi giorni – si rivelarono le persone più «normali» che si potessero immaginare, sia rispetto alle loro competenze (ne avevano, ma altre), sia rispetto alle loro incompetenze, sia rispetto alle loro debolezze. Il loro cambiare partito e rinnegare cose dette a distanza di pochi giorni fu additato alla deplorazione dei cittadini che li avevano consapevolmente votati, anche da parte dei leader che li avevano consapevolmente candidati. Ma erano solo persone normali.
4 «Bisogna quindi voler rischiare l’accusa di elitarismo e dire che i partecipanti passivi alle elezioni sono spesso dei gonzi, e che quelli che conducono il gioco sono in genere i veri elitari» denuncia Cristopher Hitchens in Consigli a un giovane ribelle (Einaudi 2008). C’è infatti una ipocrita reticenza demagogica a dichiarare che il tasso bovino tra di noi è congenitamente molto alto – sempre animali siamo – e costantemente in crescita grazie alle pratiche diseducative o le viltà delle classi dirigenti. Direttori dei giornali e conduttori televisivi dicono in giro che le mediocrità che propongono sono «ciò che il pubblico vuole». Però tutti sostengono che «la gente non è stupida», malgrado metà di noi faccia continuamente cose giudicate idiote dall’altra metà e viceversa. Possiamo dare i giudizi più tranchant e presuntuosi su qualunque cosa, ma siamo terrorizzati per spocchia anti-intellettuale – dall’accusa di spocchia intellettuale. «Alla gente piace il sanguinaccio, la gente è stupida» diceva Bill Murray in Ricomincio da capo, l’unico sincero. No, non l’unico: «Il migliore argomento contro la democrazia è una conversazione di cinque minuti con l’elettore medio» (Winston Churchill).
5 C’è una lettura opposta e col senno di poi sintetizzata da Piero Ignazi: «Per quanto fossero corrotti e autoreferenziali avevano però tutti un impianto culturale solido e avevano assimilato, volenti o nolenti, i principi fondamentali della democrazia parlamentare. La loro scomparsa e l’irruzione degli Hyksos leghisti e forzitalioti hanno messo in tensione il sistema istituzionale» (Piero Ignazi, La fattoria degli italiani, Rizzoli 2009).
6 «(Dopo Tangentopoli) mancò l’occasione, forse irripetibile, di proporre
una riconoscibile e netta inversione di tendenza, caratterizzata in primo luogo dalla trasparenza delle scelte e degli orientamenti, dal privilegiamento del merito e delle competenze, e così via. Dalla capacità cioè di proporre un modo diverso di “essere italiani”, su tutti i terreni. “L’Italia che noi vogliamo” o “rifare l’Italia” sono rimasti slogan vuoti e disattesi. Immediatamente dimenticati dopo le campagne elettorali, e incapaci persino di caratterizzarle in profondità» (Guido Crainz, La cultura dell’illegalità, «la Repubblica», 4 marzo 2010)
7 «Il modernissimo problema di ogni partito progressista è come non essere percepito come elitario, giacobino e iperrazionale, senza per questo diventare populista o vacuamente retorico» (Pierluigi Bersani, «Il Sole 24 Ore», 13 settembre 2009).

Altre cose:

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).