La direzione del PD

Matteo Renzi sarà domani alla direzione democratica, ma sbaglia chi s’aspetta che precipitino i tempi del confronto interno su linea e leadership.
Ora il Pd deve occuparsi del presente – il proprio e quello dell’Italia, nel senso del governo da darle – perché ritiene che contribuire alla soluzione di questo rompicapo sia una responsabilità del partito di maggioranza relativa. Questo significa che i democratici ancora non possono occuparsi più di tanto di capire il recente passato, cioè quali siano le ragioni vere del peggior arretramento elettorale da quando esiste il centrosinistra.
E soprattutto significa che i democratici non ce la fanno a gettare lo sguardo troppo in là, prendere fin d’ora le decisioni necessarie per tornare più competitivi nello scontro elettorale che si svolgerà entro qualche mese, poco più o poco meno di un anno.

Ecco perché non si andrà oltre una discussione seria sulla soluzione della crisi politica-istituzionale in corso (Renzi è fuori da ogni gioco da questo punto di vista). Sarebbo rischioso se si dovesse discutere senza rete della sconfitta elettorale. Mentre il tema cruciale della leadership prossima ventura è tema sul quale per adesso il gruppo dirigente dem è d’accordo nel sorvolare: sarà la partita dell’autunno, tra congresso e nuove primarie.

Naturalmente però è importante che le scelte per l’oggi e l’analisi di ciò che è accaduto ieri non siano tali da pregiudicare le future chances di rivincita.
Ci sarà quindi bisogno prima o poi di diradare la nebbia sui tre milioni e mezzo di voti perduti negli ultimi cinque anni. L’analisi del risultato proposta dalla segreteria Bersani è troppo limitata, anche se contiene un punto di verità indiscutibile: il Pd ha pagato l’anno di sostegno al governo Monti.
La storia dirà che – fosse contato solo l’interesse del Pd e non la salvezza nazionale– Bersani non avrebbe dovuto farsi convincere di ciò di cui non era convinto, nel novembre 2011. E che ha sbagliato chi s’è illuso (quorum ego) che gli italiani avrebbero capito, apprezzato e premiato il lavoro di risanamento avviato dal professore della Bocconi.

Ma sostenere che il Pd non si sia abbastanza occupato della sofferenza sociale, del lavoro e dell’insicurezza delle famiglie, questo è un insulto che Bersani non merita.
Si potrebbe all’opposto dire che il segretario del Pd non s’è quasi occupato d’altro, e non solo in campagna elettorale ma da sempre. Le fabbriche chiuse, le scuole a pezzi, gli ospedali abbandonati: solo il Pd s’è visto da quelle parti, sforzandosi ogni volta di distinguere il proprio ruolo da quello dei tecnici tagliatori di costi.

Il crollo contemporaneo di Vendola e Ingroia toglie sostanza alla tesi di un Pd poco di sinistra.
In questo senso vale il paragone con una lontana sconfitta del Pci, quella del 1979. Per spiegare le elezioni che avrebbero segnato l’inizio della lunga fine del comunismo italiano si ricorse allo stesso argomento: nell’emergenza (la crisi, il terrorismo) abbiamo sostenuto l’austerità, per di più gestita da altri (la Dc, allora), ora paghiamo caro il nostro senso di responsabilità davanti ai ceti popolari.

In realtà eravamo nell’anticamera degli anni Ottanta e del craxismo. La società si scomponeva e ricomponeva in un modo che avrebbe reso inutilizzabili i discorsi di classe. Fattori nuovi e incontrollabili entravano nella determinazione dell’opinione e del comportamento elettorale degli italiani. L’argomento riproposto oggi era già superato trentaquattro anni fa. Tra gli elementi di cui non teneva conto c’era la personalizzazione crescente della politica.
Abbiamo sostenuto e continueremo a sostenere la battaglia di Bersani contro i partiti personali.
L’intercambiabilità dei leader, considerata a lungo una debolezza, è stata in realtà la salvezza del centrosinistra nella Seconda repubblica. Oggi il Pd è in difficoltà, ma ha un futuro davanti. Mentre non c’è miracolo che possa dare al centrodestra la speranza di recuperare una parte almeno dei sette milioni di voti perduti dal 2008: in Berlusconi (incapace in realtà se non di un lievissimo e fisiologico recupero in campagna elettorale) sono il principio e la fine del Pdl.

Il problema è che s’è rivelata sbagliata l’analisi bersaniana sul fatto che gli italiani si fossero stufati delle suggestioni dei leader carismatici. Non solo non si sono stufati, ma la crisi ha evidentemente accentuato la domanda di figure di riferimento. Il messaggio incarnato in una personalità forte non può essere sostituito da alcun discorso, di destra di sinistra o di estrema sinistra.
Il 22 maggio 2012 Europa – il giornale che dirigo – titolava, sui ballottaggi del turno elettorale amministrativo che comprendeva anche Parma e Sicilia: «Il Pd vince dappertutto. Tranne dove ci sono novità». Berlusconi era facilmente battibile, Grillo no. Scrivevamo: «Ora il Pd corre il rischio di essere considerato dagli elettori come l’unico sopravvissuto del vecchio sistema».

Tutto ciò che il Pd ha fatto dopo di allora (le misure sul taglio dei costi della politica, le primarie per il leader, la rottamazione di alcuni dirigenti storici, le primarie per i parlamentari) è stato il tentativo di ritrovare sintonia con gli italiani su temi che dalla crisi economica sono aggravati ma che non si risolvono in essa. Tra dicembre e gennaio, grazie alle primarie, abbiamo sperato che questa rincorsa avesse avuto successo. Invece non era stato fatto abbastanza. Berlusconi due domeniche fa è stato battuto, a fatica. Grillo politicamente ha vinto (anche se non sa bene che cosa fare della vittoria).

Se fosse esauriente la spiegazione, diciamo così, “economico-sociale” della sconfitta del Pd, non si capirebbe perché oggi le scarse speranze residue di andare a palazzo Chigi con Bersani siano tutte legate a proposte contro la casta e per il rinnovamento della politica. Questo continua a essere praticamente l’unico atout di Grillo, che non è certo stato votato per le aspirazioni ecologiche dei suoi candidati né per l’intento di abolire i sindacati e tutti i corpi intermedi (sempre a proposito della lettura “di sinistra” di M5S e del voto che ha ricevuto).
Che atout potente, però.

Perché con l’inefficienza e l’intima corruzione del sistema politico gli italiani ormai spiegano qualsiasi cosa: dal crollo del palazzo di Napoli fino al dramma degli esodati. E un po’ hanno anche ragione. La corruzione si alimenta della burocrazia, che non ha colore né appartenenza politica, si nasconde nelle pieghe di codici elefantiaci, genera scelte di governo cattive o distratte o semplicemente inutili.
Può darsi che dall’attuale impasse si esca con un governo scarnificato al massimo, il più neutrale possibile, “del presidente” come si dice, per garantire un minimo di gestione delle molte emergenze in preparazione di una scadenza elettorale con una legge decente.
Se dovesse andare così, sarebbe meglio che da dentro il Pd non si alzasse l’ennesima recriminazione per la democrazia esautorata e la volontà popolare confiscata. Stefano Fassina ha già preannunciato su questa linea addirittura «l’incitamento alla rivolta».

La prima lezione di questi ultimi sedici mesi è che, senza dubbio, l’Italia non si salverà mai senza una guida politica democraticamente legittimata e riconosciuta.
C’è però una seconda lezione, che riguarda il Pd, Fassina e tutti noi: il centrosinistra come l’abbiamo conosciuto non è in grado di offrire al paese questa guida politica. Col 25,4 per cento dei voti (meno di quanto avesse il Pci quando si accomiatò dagli elettori nel 1987), per quanti sforzi meritori abbia fatto, non viene riconosciuto dagli italiani all’altezza del compito. Potrà rinnovare la sua proposta all’Italia solo se riuscirà in una rapida rigenerazione della quale Bersani e le primarie hanno appena gettato le fondamenta.
Scrivevamo all’inizio che questo è il tema di dopodomani, nel senso che supera le aspettative verso la direzione di mercoledì. Noi però ci sentiamo già calati in questa prova.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.