In provincia di Livorno

La ribellione di molte province italiane contro gli accorpamenti e la riduzione di numero delle province stesse è una plateale e deprimente dimostrazione che col cavolo che il paese è unito quando si tratta di cercare di migliorare le cose e col cavolo che ci sono interventi di buon senso condivisi da tutti. E che invece siamo d’accordo sul bene comune solo fino a che non dobbiamo sacrificarne una briciola del nostro privato.

La riduzione delle province è un intervento unanimemente definito saggio e utile da tutti, fino a poco prima che avvenisse. Moltissimi addirittura sostenevano che andasse abolito l’istituto stesso: su questo c’era qualche obiezione concreta, qualche competenza provinciale che poteva essere meno inutile di altre, ma tutto ciò suggeriva tuttalpiù un approccio attento e articolato all’iniziativa, che conservava un grande consenso.

Poi è successo che si è deciso per la riduzione, e la riduzione è arrivata. E adesso in tutta Italia si sollevano manipoli più o meno numerosi di contestatori del governo, indignati e disperati. Le cui proteste sono fondate di fatto su tre argomenti:

1. gli accorpamenti generano singoli e puntuali problemi su alcune competenze, alcune attribuzioni, alcuni modi di gestire il territorio.

2. gli accorpamenti si traducono in un danno economico o professionale per alcune persone, ruoli, attività.

3. gli accorpamenti impoveriscono la nobile tradizione identitaria e culturale di questa o quella città e ne diminuiscono l’importanza.

L’argomento 1 è accettabile e valutabile, caso per caso. Ma sostiene forse l’1% delle proteste, a occhio.
L’argomento 2 rivela interessi ed egoismi legittimi, in qualche caso comprensibili e in altri inaccettabili, ma sempre imparagonabili con il bene comune.
L’argomento 3 appare molto diffuso ed è un esemplare indicazione del perché non ce la faremo mai. Perché intanto stiamo parlando di un istituto amministrativo che niente ha a che fare con la città: non stiamo proponendo di abolire Asti o cambiarle il nome in Alessandria. E Imola, Cortona, Vigevano, San Benedetto del Tronto, Sanremo, Alcamo, Alghero, non hanno identità meno forti e nobili perché il capoluogo della loro provincia è un altro. Quello che temono, gli abitanti delle province eliminate, è un declassamento da parvenu, che tolga “lustro” alla loro città e al loro status. L’idea che se la tua città non è più capoluogo tu sia un po’ sfigato: dover scrivere nei moduli il nome della provincia, accanto a quello del luogo di residenza, umiliazione intollerabile. E in più temono che la tua città perda alcuni privilegi legati a questo: e che la loro conservazione debba prevalere sul bene comune. Magari sono gli stessi che negli ultimi vent’anni si sono via via indignati del proliferare di nuove province.

E sono portatori, al di là dei costi maggiori per la comunità dei loro capricci, della radicata cultura che è da sempre la mezza rovina italiana, quella che ci zavorra e ci fa sentire incapaci di cambiare: il nostro aver rimpiazzato la comunità con la famiglia, con tutto il suo sistema di deroghe e contraddizioni: al punto che «la famiglia» è diventata il nome delle organizzazioni criminali avversarie dello Stato, ovvero della comunità principale a cui invece apparteniamo tutti. E la questione dei Comuni e dei campanili è facilmente associabile a quella delle famiglie: ovvero la tradizione di appartenenza a un gruppo ristretto che prevale su principi, valori o regole condivise e legittimate. In cui quindi contano la riga per terra, le mura cittadine, il nome che si porta, la «tradizione»: tutto il resto è nemico.

Se fossimo capaci, per una volta, poi un’altra, poi un’altra ancora, di scardinare questo sistema di pensiero, cominceremmo a somigliare a quei paesi civili che tiriamo in ballo come modelli quando ci pare. Per quel che mi riguarda, se il cambiamento va in porto sarò orgoglioso di un paese che ha fatto una buona cosa, sarò orgoglioso di essere nato e vissuto in due città che hanno sacrificato volentieri un privilegio costoso, e sarò onorato della nuova provincia in cui sarò nato e vissuto trent’anni. Pisa, provincia di Livorno.


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Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).