Il Metodo Sellerio, ma fino a un certo punto

La storia di Sellerio è stata condivisa e apprezzata. La perseveranza e la cura con cui la casa editrice ha perseguito il progetto iniziale dimostrano che è ancora possibile fare libri belli senza relegarsi ai margini del mercato e senza rimanere economicamente e culturalmente ininfluenti. Il metodo Sellerio – anche grazie all’incontro con Andrea Camilleri – produce risultati notevoli. È una buona notizia. Nella soddisfazione di alcuni, però, ho avvertito un malanimo che mi ha fatto venire voglia di mettermi a difendere i grandi editori. Il sentimento di rivincita dei piccoli (e puri) contro i grandi (e corrotti) mi sembra dettato – anche – da un riflesso condizionato.

La mia sensazione – che come tale va presa e pesata – è che l’editoria industriale, quella cioè che ha caratterizzato il Novecento, sia entrata in crisi e che i libri ritornino a essere oggetti più artigianali, come prima della rivoluzione industriale. La potenza e le dimensioni dei grandi gruppi editoriali, da vantaggio competitivo, rischiano di trasformarsi in un peso. Alcune ragioni che potrebbero spiegare l’indebolimento della grande editoria:

  • Pubblicare libri costa meno. L’abbassamento dei costi di stampa diminuisce il potere dei grandi editori. Lo sviluppo del self publishing, per quanto ancora difficile da quantificare, accentua questo processo.
  • Distribuire libri costa meno. Amazon garantisce consegne veloci ed efficienti, rendendo meno indispensabili le tradizionali reti commerciali.
  • Le librerie di catena sono meno potenti. Non possono competere con Amazon per l’assortimento e non possono competere con le librerie indipendenti per il rapporto con il pubblico.
  • Giornali, radio e televisioni sono in crisi (e i critici letterari non se li fila più nessuno). I grandi uffici stampa delle case editrici industriali sono meno decisivi per determinare il successo di un libro. La comunicazione viaggia anche su canali digitali spontanei.
  • Più si è grandi più si è lenti. Le piccole case editrici hanno processi decisionali più veloci, o comunque meno rallentati da questione tecniche – che nei grandi gruppi sono accentrate – e dagli uffici legali il cui peso, negli ultimi anni, per i grandi editori, è cresciuto. I libri sono oggetti lenti, rallentarne l’uscita per ragioni che non hanno a che fare con la loro qualità, è uno svantaggio.

Se la tendenza è questa, sicuramente non è univoca. Ci sono segnali in entrambe le direzioni: mentre in Italia, nell’ultimo anno, gli editori cosiddetti indipendenti sono cresciuti e i grandi sono arretrati – tanto da doversi fondere per cercare di mantenere le loro quote di mercato –, il più grande gruppo editoriale del mondo – Penguin Random House – non ha mai avuto risultati così buoni. Ma soprattutto non è detto che le difficoltà dei grandi siano un fatto positivo. La prima ragione è culturale: da due secoli l’editoria industriale svolge un ruolo fondamentale nella diffusione dei libri e della lettura. La ragione economica è che la grande editoria impiega molte persone e ha un peso economico e culturale incomparabile con quello di un’editoria che dovesse ritornare a modalità più artigianali di produzione.

Sellerio – che impiega soltanto 15 persone (compresi i due proprietari) – chiuderà il 2016 con un fatturato intorno ai 20 milioni di euro. Mondadori libri – non l’intero gruppo, solo i libri Mondadori – nel 2016 avrà un fatturato di circa 130 milioni di euro, circa sei volte più grande, ma ha un centinaio di dipendenti, tra editor, redattori, uffici stampa e diritti. È abbastanza incredibile – la notizia di questo post è questa – ma il rapporto tra fatturato e impiegati è identico: ogni dipendente di Mondadori e ogni dipendente di Sellerio produce 1,3 milioni di euro di fatturato a testa. È un dato che fa capire quanto incidano stampa, carta e distribuzione nei costi dell’editoria (e che bisogna tenere a mente durante un eventuale colloquio di lavoro o una rivendicazione sindacale). Quello che varia, e molto, è il numero di titoli pubblicati ogni anno: Sellerio ne fa circa 65, quindi 5-6 al mese; Mondadori più di 300, poco meno di 1 al giorno, quasi 30 al mese. Di fronte a una sproporzione così eclatante, non si può pretendere che ogni libro di un grande editore riceva la stessa attenzione, che abbia carta preziosa e rilegature a filo, anche perché sarebbe insensato: i libri sono diversi e richiedono lavorazioni e confezioni diverse. Un’edizione di Cinquanta sfumature di grigio in carta filigranata sarebbe almeno altrettanto mostruosa di un Meridiano in brossura, malamente incollato e di carta schifosa.

Questa sproporzione produttiva si riflette, ovviamente, anche sulla linea editoriale. Se si fanno meno libri è più facile definire e mantenere una linea e un’identità. Ma da questa differenza non discende, necessariamente, una differenza di valore. Il fatto che una grande casa editrice debba necessariamente ampliare il tipo di libri che pubblica e il tipo di pubblico che può leggerli, non significa rinunciare a fare libri belli o scritti bene, anzi. Al contempo pubblicare meno libri non significa non farne anche di leggeri e vendibili, altrimenti si fallirebbe. È il caso di Sellerio – e di altri editori cosiddetti “di progetto” –, il cui merito è stato proprio quello di assorbire libri più facili, come per esempio i gialli, all’interno di un progetto grafico raffinato – si potrebbe dire identitario. Il successo di Sellerio dipende, appunto, essenzialmente, dalla leggerezza e dalla serialità del giallo, cioè dalle caratteristiche tipiche di un genere “di intrattenimento”, lanciato dall’editoria industriale, e in Italia, peraltro, creato e cementato dalla Mondadori.

Qualcosa di simile ha fatto Adelphi acquisendo la serie di Maigret di Georges Simenon e i romanzi di 007 di Ian Fleming, due scrittori che da vivi erano considerati letteratura di consumo, rivolta a un pubblico generico, anche popolare. Adelphi e Sellerio pubblicano anche libri bellissimi, naturalmente, difficili, preziosi, ma lo stesso si può dire di Mondadori o Rizzoli. Fatalmente, però, in editoria i guadagni di solito provengono dai libri più semplici e dagli autori più accessibili, o dal presentarli come tali. Se Sette brevi lezioni di fisica di Carlo Rovelli – il caso editoriale del 2015 – non avesse annunciato la propria brevità nel titolo, difficilmente avrebbe avuto lo stesso risultato. È lo stesso meccanismo grazie al quale vent’anni fa l’invenzione di Einaudi Stile libero è stata importante per salvare il marchio e i conti di Einaudi.

La difesa dell’editoria industriale e del suo ruolo politico e culturale incontra due obiezioni. La prima riguarda i libri: molti di quelli pubblicati dai grandi editori sono oggettivamente brutti, tanto per la loro qualità materiale che per quella dei testi, eppure spesso vendono di più di libri di maggiore qualità. È un’obiezione che riposa sulla convinzione ingenua che se non esistessero libri di Benji e Fede, le loro fan si precipiterebbero a leggere La cognizione del dolore di Gadda. La domanda giusta da porsi, invece, è se sia giusto che un libro, anche modesto, venga pubblicato. Per rispondere di no – oltre ad ammettere un certo stalinismo – bisognerebbe anche sostenere che i libri di scarsa qualità siano dannosi ed escludere che la cultura possa seguire vie misteriose, spontanee e incontrollabili. Anche l’obiezione sulla scarsa qualità materiale dei libri è troppo tranchant: non sempre i libri degli indipendenti sono fatti meglio, più resistenti e con meno errori di traduzione e refusi, di quelli pubblicati dai grandi editori.

L’altra obiezione riguarda la concorrenza: i grandi editori schiacciano i piccoli perché possono imporre alle librerie con prepotenza i propri titoli a discapito di quelli degli altri, e hanno il potere di monopolizzare la promozione dei grandi mezzi di informazione. È una contrapposizione vera, ma solo in parte, che ricalca quella tra grande e piccola distribuzione, tra supermercati e drogherie, e che evidentemente ha molte ragioni, ma che sta alla politica governare e riequilibrare. In ogni caso, le difficoltà dei grandi editori e i buoni risultati di alcuni indipendenti dimostrano che si sono aperti spazi prima inesistenti. Le storie di Sellerio, Adelphi, E/O, minimumfax, Iperborea e di molti altri dimostrano che i libri possono ancora trovare, quasi inventare, il pubblico da cui verranno letti.

L’editoria è un’attività strana, che in qualche misura assomiglia al packaging: si tratta di scegliere dei testi e di confezionarli nel modo migliore perché attirino l’attenzione del maggior numero di lettori possibile. Sapendo sempre che l’involucro cambia il contenuto: avvolto in una copertina di Adelphi il commissario Maigret è un personaggio diverso da quello che appare nei gialli Mondadori. Ha un vestito più elegante e fascinoso, e così abbigliato può raggiungere lettori che altrimenti lo avrebbero ignorato. Ma guardare dall’alto in basso il vecchio Maigret, quello pubblicato, per esempio, nei Gialli Mondadori Junior, e insieme al commissario i lettori e gli editori che lo apprezzarono per primi, non è comunque un gesto elegante. La simpatia e la solidarietà per gli editori più raffinati e indipendenti, che è sacrosanta, non dovrebbe mai fare dimenticare che la diffusione della cultura e della lettura è un merito storico che va riconosciuto all’editoria industriale, che nel Novecento è stata capace di raggiungere, e in qualche misura creare, un pubblico che fino ad allora non leggeva. È anche grazie alle collane dei tascabili inventate da Rizzoli e Mondadori nel Dopoguerra, e ai grandi scrittori italiani e stranieri che l’editoria industriale ha fatto crescere e imposto, che la lettura si è diffusa e che i libri hanno contato qualcosa.

Giacomo Papi

Giacomo Papi è nato a Milano nel 1968. Il suo ultimo romanzo si intitola Happydemia, quello precedente Il censimento dei radical chic. Qui la lista dei suoi articoli sui libri e sull’editoria.