Davvero c’è la scissione Pd?

Dario Franceschini è stato il secondo segretario del Pd, dopo aver garantito da vice di Veltroni l’impianto degli ex popolari nel partito, e prima di tornare a fare un lavoro molto simile da capogruppo alla camera, con Bersani.
Di lui tutto si può dire, meno che parli a vanvera. E se l’altra sera ha pronunciato in tv quella frase shock sul rischio di tornare a dividersi tra “moderati” e “sinistra”, l’avrà fatto a ragion veduta. Anche considerando l’impatto che una fibrillazione interna così alta potrebbe avere sulle scadenze istituzionali, alle quali non a caso Bersani ha chiesto di presentarsi con la massima unità interna.

C’è un primo livello di interpretazione. È già duro, anche se è solo il primo: la nomenklatura democratica ha ormai preso le distanze dal segretario. Fino all’altroieri ha accompagnato in silenzio la gestione della sconfitta. Ora, con gesti e parole, si staccano in tanti. Da Veltroni a Rosy Bindi, da D’Alema a Franceschini.
È giusto notare che sono tutte vittime più o meno volontarie del processo di rinnovamento che Bersani ha lanciato a cavallo delle primarie e in apertura di legislatura. Sono coloro che affettuosamente Bersani chiamava in privato «gli elefanti», mutuando un’espressione in voga nel Ps francese.
Ecco, gli elefanti tornano a colpire. Ma è sbagliato ridurre la questione alla rivalsa di un gruppo dirigente esautorato. Perché anche nell’ampio e variegato gruppo dirigente “giovane” le cose non vanno meglio, parlando sempre di clima politico e non di sostegno e stima personali perché questi a Bersani non sono mai venuti meno.

Questo primo livello di presa di distanza è anche fisiologico, non va drammatizzato. La sequenza di scadenze istituzionali ha lasciato per aria una questione colossale che però tutti hanno perfettamente presente: la perdita di tre milioni e mezzo di voti, la sconfitta elettorale per la quale fin qui non è saltato neanche un coordinatore regionale. La messa in discussione della leadership del partito è nei fatti, anche se rimane implicita.

Se però l’indebolimento di un segretario è un evento naturale in un partito democratico, la possibilità di una scissione è proprio un’altra cosa. Un rischio di secondo livello, molto più grave. Allora è importante valutare lo spessore dei timori espressi da Franceschini. E da molti altri, a dire il vero, anche se fra questi non c’è mai, mai, stato il protagonista principale di tutta la storia, cioè Matteo Renzi.
Questo apparente paradosso è significativo, dirada la nebbia e rassicura chi, a soli cinque anni dalla fondazione, pensa che la vicenda del Pd non possa essere già al capolinea.
Infatti il primo pensiero che, da prima delle primarie, viene in testa parlando di scissione, è che questa possa verificarsi per colpa o per ragione di Matteo Renzi.
Peccato che in tutto il gruppo dirigente allargato del Pd, giovane e anziano, Renzi sia l’unico insieme a Bersani e a Letta che questa ipotesi l’abbia sempre esclusa.

Di possibili rotture, nel corso del tempo e per motivi ovviamente opposti, ha parlato D’Alema (sì, proprio colui che ieri scartava sdegnosamente l’idea). Molto spesso Fioroni. Svariati capi e capetti della sinistra interna (per esorcizzare il rischio che Renzi vincesse le primarie) e poi svariati capi e capetti della componente ex popolare (per lamentare lo strapotere della componente ex diessina). L’hanno paventato Franceschini e prima di lui Veltroni. Alcuni renziani, spesso, quando l’ostracismo della maggioranza pareva loro insopportabile.
Ne parlano ormai apertamente, da fuori, sia i laici di Scelta civica (pronti ad accommiatarsi dall’Udc e da Sant’Egidio non appena Matteo Renzi si liberasse del fardello del Pd) che quelli di Vendola, in procinto di sciogliere Sel per spingere la sinistra democratica a ricomporre un (grande o piccolo chissà) nuovo partito, dal perimetro pericolosamente somigliante a quello del vecchio Pci.
Ne parlano tanti dunque, e figurarsi quanto ne parlano i giornali.
Bersani e Renzi non ne parlano mai. E neanche ci pensano: l’ostinazione del sindaco a restare in quella che chiama «casa sua» è deprecata, per esempio, da chi lo contatta da fuori il Pd.
Anche all’apparire all’orizzonte di un nuovo possibile leader laburista come Fabrizio Barca (fin qui molto virtuale, ma bravo e determinato), i più saggi tra i nuovi dirigenti dem non ragionano in termini di contrapposizione e tanto meno di divisione, bensì di allargamento.
È evidente che, pensando al prossimo congresso, c’è chi vorrebbe ridisegnare la mappa interna del Pd secondo ascisse e ordinate diverse da quelle che erano disponibili al momento della fusione tra i Ds e la Margherita a larghissima prevalenza di sinistra cattolica.

Questo dà ragione di una certa drammatizzazione da parte di un’area ex popolare che non potrebbe più giocare come tale negli assetti interni, e che del resto Renzi non ha mai voluto interpellare né corteggiare marcando anzi l’estraneità rispetto al gruppo dal quale pure proviene.
Insomma, la scissione che riporta la storia indietro a Ds e Dl, paventata ora da Franceschini e giorni fa da Veltroni, non esiste. Il che può tranquillizzare ma lascia sospesa la domanda più concreta: il Pd è in grado, nel caso una maggioranza di elettori lo decidesse, di reggere il passaggio nelle mani di Matteo Renzi?
Sospetto che se oggi lo chiedessimo a Massimo D’Alema avremmo una risposta positiva, sorprendente solo per i pigri e i distratti. Ma, oggi più che mai, il via libera di D’Alema non garantisce, e il sindaco che l’ha ospitato ieri lo sa.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.