Dal Palasharp all’Ariston

Io penso che la canzone di Roberto Vecchioni a Sanremo fosse molto brutta: imbarazzantemente didascalica nel testo, trombona, banale di una banalità pigra e povera, esempio tra i peggiori di un repertorio infantile noi-puri-contro-i-potenti-cattivi, imbarazzantemente paternalistica e demagogica. E penso che abbia guadagnato consensi esattamente per queste pigre ragioni: facile, demagogica, buona per pensare che il mondo fa schifo per colpa di certi cattivi e autoconsolarsi, utile a ricordare a una vecchia generazione i suoi vecchi tempi e a rifilare a una nuova generazione qualche slogan di quelli facili che da giovani ci piacciono tanto.

La premessa è per chiarezza, e va insieme a un mio vecchio amore per molte canzoni di Vecchioni e alla mia capacità di distinguere quelle da questa. Che in fondo è una canzone, e chissenefrega: capita di scriverne di brutte. Quello che invece mi pare più desolante è l’atteggiamento ingenuo e sventato con cui la sanremizzazione di una vecchia cultura artistica di sinistra sia stata da alcuni illusi equivocata per una colonizzazione di Sanremo da parte dell’arte e dell’impegno. Ieri mattina Gino Castaldo ha sostenuto che grazie alla canzone vincitrice a Sanremo è tornata la buona musica (rendiamoci conto). Ieri sera Gad Lerner ha avuto simili toni nel celebrare il buon Vecchioni, arrivando ad affrontare il valore civile della dedica alle donne di una vittoria al televoto. Altri di quella generazione hanno reagito allo stesse modo, ciechi rispetto all’essere stati digeriti non solo da Sanremo ma dall’Italia che altrimenti sostengono di disprezzare. Succubi di una cultura che da una parte contestano e dall’altra desiderano li accolga. Incapaci di vedere che esserne accolti significa scendere a patti con le sue mediocri misure. Sanremo non si è spostata di una virgola, sono loro ad esserci entrati con tutte le scarpe. E così nell’Italia di oggi: la cui cultura devastata si ricostruisce in nuovi luoghi e migliori, non entrando nei baccanali con le proprie clarks e pensando che i baccanali diventino per questo splendenti. Si esce con le clarks inzaccherate senza accorgersene, come quando qualcuno sostenne che la vittoria di Vladimir Luxuria all’Isola dei Famosi fosse una grande vittoria per i diritti dei gay.

È abbastanza scemo che il terreno di competizione tra un’idea di sinistra e un’idea di destra sia stato spostato fino a Sanremo, misero terreno. Ma sommamente scemo è pensare che la competizione sia stata vinta dalla sinistra: ci si sono magnati.


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Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).