Al posto dell’AgCom

Ho seguito le discussioni sulla delibera dell’AgCom sulla pirateria online e accolto con attenzione le moltissime riserve che ho visto espresse da persone che conoscono la rete e i suoi funzionamenti. Mentre mi hanno deluso quasi tutte le opinioni che ho visto a favore della delibera, perché vi ho letto una grande incompetenza sulle nuove tecnologie e sul contesto in cui la questione si sviluppa (ho visto peraltro simili incompetenze e superficialità demagogiche anche in alcuni titoli e interventi contro la delibera).
A questo punto la mia impressione è che la materia sia senz’altro molto incasinata e che molte sue variabili vadano valutate separatamente, ma che la delibera pubblicata sia comunque uno strumento incompleto, inadeguato, pericoloso, superficiale. Rimando ai molti più esperti di me che ne hanno scritto.
Quello che volevo dire qui, invece, è che forse però le persone che studiano le cose della rete e cercano di difenderne il buon funzionamento distinguendo le regole – che ci sono, eccome – dalle repressioni o dalle burocrazie, dovrebbero in questo caso come in molti altri farsi carico di soluzioni alternative ai problemi che vengono così malamente affrontati. O almeno di creare una discussione proficua e sensata su questi problemi, e non produrre solo severe analisi critiche ogni volta che vengono prospettate soluzioni sbagliate. Perché se no si lascia il campo al gregge del “ci vogliono regole” che non sa di cosa parla.

Perché molti sostenitori della delibera AgCom o di altri sistemi per arginare la pirateria online, hanno invece dalla loro una ragione di una certa solidità: ovvero che la pirateria – in qualunque misura la frequentiamo – è un reato. Non è uguale a un furto, né è solo roba di mafie, come la dipingono certe sventate campagne terroristiche, ma allo stato è un reato. E allo stato, fa perdere soldi per esempio a chi lavora col cinema, e mette a rischio produzioni, film e mestieri. Che non necessariamente devono essere protetti in quanto tali, o non a ogni costo – le cose cambiano – ma chi chiede interventi parte dall’assunto di voler proteggere il cinema, sia esso un’arte o un’attività commerciale o entrambe. Noi possiamo anche dire che l’innovazione e il mercato fanno il loro corso e che se i benefici che portano hanno come prezzo una quota di illegalità, è un prezzo che riteniamo si debba pagare. O possiamo dire che siamo disposti a sacrificare – come nella storia facemmo con il teatro, o altre cose che ci erano importanti – un pezzo della presenza del cinema nelle nostre società. E possiamo senz’altro ridere degli annunci a pagamento della SIAE a base di citazioni di Martin Luther King e apocalissi annunciate, e spiegare che molte ricerche dicono che il download illegale di film e serie tv è anche una grande promozione per molti di quei prodotti: ma che generi soprattutto cospicue perdite è un dato abbastanza inoppugnabile, persone esperte che lavorano in questi settori – che non sono fatti solo di “Signori del copyright”, come li chiama Guido Scorza – ci mostreranno pacatamente. E trovare modelli di business o sopravvivenza a prodotti che hanno costi molto alti non è per niente facile, ancora più difficile che con la musica o i giornali, per fare altri esempi di settori travolti dalle rivoluzioni tecnologiche. È un problema, che si allarga a una discussione più generale ed epocale sul diritto d’autore, su cui mi pare ci sia una grande rimozione. Ce l’abbiamo, un’opinione? La vogliamo costruire?

Luca Sofri

Giornalista e direttore del Post. Ha scritto per Vanity Fair, Wired, La Gazzetta dello Sport, Internazionale. Ha condotto Otto e mezzo su La7 e Condor su Radio Due. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2016).