Cosa sta succedendo in Yemen
Con un gruppo separatista, un governo molto debole e lo scontro tra Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita

Martedì gli Emirati Arabi Uniti hanno annunciato il ritiro delle loro forze dallo Yemen. È un grosso sviluppo per la guerra civile del paese, che va avanti dal 2014 ma da circa tre anni era in una fase di stallo. L’annuncio è il risultato di una crisi tra gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita: entrambi sostengono il governo yemenita riconosciuto dalla comunità internazionale, ma la loro rottura rischia di dividerlo e indebolirlo.
Arabia ed Emirati stanno litigando per il sostegno dato dagli Emirati al gruppo separatista Consiglio di Transizione del Sud (o STC). Il gruppo nominalmente fa parte dello schieramento del governo, quello che combatte gli Houthi, ma all’inizio di dicembre ha condotto una rapida offensiva contro le forze governative, appoggiate dai sauditi, occupando le province meridionali dello Yemen. Il governo e l’Arabia Saudita hanno chiesto all’STC di restituirle, invano.
La situazione sul campo è grossomodo quella nella mappa qui sotto. In arancione ci sono i territori controllati dall’STC, che includono i principali centri di produzione petrolifera. La capitale Sana’a dal 2014 è controllata dagli Houthi (rosso), insieme alle zone più popolose del paese. In blu ci sono le zone in mano al governo.

La situazione sul campo in Yemen (dal sito Liveuamap)
Non si conoscono i tempi del ritiro delle forze degli Emirati dallo Yemen, né la loro entità. Nel 2019 avevano già richiamato la maggior parte del contingente inviato nel 2015 insieme all’Arabia Saudita per combattere gli Houthi; da allora avevano mantenuto un presidio, ufficialmente per le missioni antiterrorismo.
Il ministero della Difesa emiratino ha sostenuto che la decisione di ritirarsi dal paese sia spontanea, ma non è così. Dipende da un peggioramento nei rapporti con l’Arabia Saudita e con il governo yemenita, che avevano dato agli Emirati un ultimatum per via del sostegno ai separatisti.
Martedì l’Arabia Saudita ha attaccato per la prima volta strutture legate all’STC: ha bombardato il porto di Mukalla, sostenendo di avere distrutto una spedizione di armi mandata dagli Emirati, senza causare morti né feriti. Gli Emirati hanno negato, sostenendo che fosse una consegna di mezzi destinati alle loro forze e non ai separatisti. È stato il primo attacco aereo riconosciuto dal governo saudita, ma l’STC lo ha accusato di altri due, venerdì nella provincia orientale di Hadramaut.

Un frame della tv di stato saudita che mostra il punto del porto di Mukalla colpito dall’attacco (Saudi state television via AP)
L’Arabia ha accompagnato l’attacco con toni molto duri verso gli Emirati: per la prima volta li ha accusati esplicitamente di avere appoggiato l’offensiva dell’STC, fomentando conflitti interni. Il ministero degli Esteri saudita ha detto di considerare l’offensiva una minaccia alla propria sicurezza nazionale e alla stabilità dello Yemen, e di essere pronto a prendere «tutte le misure necessarie per affrontare e neutralizzare» quella minaccia.
Contestualmente il presidente del governo yemenita Rashad al Alimi, che si trova a Riad (in Arabia Saudita), aveva dato un ultimatum agli Emirati chiedendo di ritirarsi entro 24 ore. Il governo ha inoltre annullato l’accordo di sicurezza che aveva con gli Emirati e ha indetto lo stato d’emergenza per 90 giorni.
L’STC ha respinto tutti questi provvedimenti, sostenendo che siano unilaterali e privi di basi legali. Peraltro, almeno in teoria, il gruppo separatista ha ancora i suoi rappresentanti nel governo, che è a sua volta diviso e ha un’ala vicina agli Emirati. Al tempo stesso il gruppo ha iniziato a comportarsi come un governo parallelo e alternativo: ha l’obiettivo di rendere di nuovo indipendente lo Yemen del Sud, che lo fu tra il 1967 e il 1990, e ne ha adottato la bandiera.

Una pattuglia dell’STC ad Aden, il 25 dicembre (EPA/NAJEEB MOHAMED)
I media internazionali hanno fatto un’ipotesi su come mai la situazione sia precipitata. Ha a che fare con un’altra guerra in cui sono coinvolti Emirati e Arabia, sebbene su fronti opposti: quella in Sudan. Gli Emirati Arabi Uniti sono ritenuti, nonostante lo neghino, sostenitori delle Rapid Support Forces, e c’è il forte sospetto che forniscano loro droni esplosivi. Le Rapid Support Forces sono il gruppo paramilitare che sta combattendo contro l’esercito sudanese, che invece è appoggiato dall’Arabia.
Il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman aveva discusso della situazione in Sudan, e del ruolo delle Rapid Support Forces, durante il suo trionfale incontro con il presidente Donald Trump dello scorso novembre. Secondo fonti di Reuters questo avrebbe indispettito gli Emirati.

Una manifestazione a favore dell’STC e degli Emirati Arabi Uniti, di cui si vede la bandiera, ad Aden il 30 dicembre. Il ritratto sul fondo è quello di Aidaros Alzubidi, capo dei separatisti (Ansa)
Sia gli Emirati sia l’Arabia sono alleati degli Stati Uniti, che hanno mostrato una certa preoccupazione per la situazione. Martedì il segretario di Stato statunitense, Marco Rubio, ha telefonato ai ministri degli Esteri di entrambi i paesi.
Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita hanno ambizioni confliggenti non solo in Sudan. Per esempio l’Arabia ha malvisto la normalizzazione dei rapporti con Israele da parte degli Emirati, e questi non hanno contestato il recente riconoscimento formale del Somaliland da parte di Israele, a differenza degli altri paesi arabi.
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