Dieci promesse non mantenute dal governo Meloni nel 2025

Una è grossa come un ponte

Il messaggio di Natale della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il 24 dicembre 2025 (Filippo Attili/Palazzo Chigi/LaPresse)
Il messaggio di Natale della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il 24 dicembre 2025 (Filippo Attili/Palazzo Chigi/LaPresse)

In alcuni casi sono impegni precisi presi per il 2025, e non rispettati. In altri, sono battaglie storiche che anche quest’anno non sono state portate a termine, e anzi per certi versi sono state platealmente contraddette. Non è in queste dieci promesse mancate che può risolversi il bilancio dell’azione del governo di Giorgia Meloni nel 2025, ma i ritardi e le mancanze nel perseguire gli obiettivi prefissati denunciano senz’altro una certa difficoltà, visto che siamo ormai nel quarto anno della legislatura, e dunque il programma elettorale dovrebbe essere in realtà già in larga parte completato.

1) Il ponte sullo Stretto
La più imponente delle promesse mancate, se non altro da un punto di vista fisico, riguarda il ponte sullo Stretto. Il ministro dei Trasporti Matteo Salvini lo ha fissato come obiettivo fondamentale del suo mandato e ha più volte annunciato l’imminente avvio dei lavori. «A poche settimane l’avvio dei cantieri», disse ad aprile. «Entro l’estate», confermò a fine luglio. È finito il 2025, e i cantieri ancora non ci sono, anche a causa delle storture e delle lacune nel progetto rilevate dalla Corte dei conti, a cui il governo, dopo un’aspra polemica, si è detto pronto a replicare. Non lo ha ancora fatto, anzi.

2) I 25 miliardi per le imprese
La promessa mancata più rilevante sul piano finanziario è invece quella che Meloni aveva fatto l’8 aprile scorso, quando aveva annunciato lo stanziamento di 25 miliardi di euro a favore delle imprese per fare fronte ai dazi imposti da Donald Trump. Le fonti da cui intendeva reperire una mole così consistente di risorse erano varie, e prevedevano procedure complesse e cervellotiche. Di fatto, quasi nulla di quei soldi è stato effettivamente messo a disposizione del sistema industriale italiano.

Per certi versi è proprio questa la mancanza più evidente del governo: la difficoltà nell’introdurre misure e riforme a sostegno della produttività e degli investimenti per la crescita. Anzi, la gestione dei principali progetti di questo genere, come Transizione 5.0, è stata piuttosto fallimentare. Quando ha provato a modificarli il governo ha finito col combinare dei mezzi disastri, generando insofferenza e proteste tra gli industriali.

Nella legge di bilancio si è cercato di correggere alcune delle storture più evidenti, e nella revisione fatta dal governo all’ultimo momento utile sono stati inseriti poco più di 3 miliardi per le imprese, che serviranno però in buona parte per finanziare delle vecchie misure introdotte dai precedenti governi che Meloni e il ministro per le Imprese Adolfo Urso avevano voluto eliminare, salvo poi rivalutarle a tre anni di distanza. Tutto questo è successo in un contesto piuttosto drammatico per la produzione industriale, che ha registrato un calo quasi ininterrotto da quando c’è il governo Meloni (32 mesi su 36 di decrescita).

3) La vendita dell’ex ILVA
Ricadono sotto le competenze di Urso anche le mancate promesse sugli impianti dell’ex ILVA di Taranto. Nell’ottobre del 2024 il ministro disse che la procedura per vendere l’acciaieria, alla quale si erano inizialmente mostrate interessate 15 aziende, si sarebbe conclusa con successo con ogni probabilità «già agli inizi del prossimo anno», cioè del 2025. Siamo alla fine dell’anno e l’esito della gara pare ancora incerto e lontano: anzi, a novembre Urso ha annunciato che ai due principali gruppi rimasti in ballo se ne era aggiunto un terzo.

4) Il Piano Casa
Anche il Piano Casa resta tra gli annunci rimasti in sospeso. Meloni lo aveva presentato come una priorità per il governo nel suo intervento al Meeting di Rimini, a fine agosto. Dal suo staff e da quello di Salvini, direttamente coinvolto nel progetto, erano circolate inizialmente stime di spesa enormi, di circa 15 miliardi, poi progressivamente ridotte a 8 e a 3. Nella legge di bilancio non c’è nulla di tutto ciò: è previsto soltanto il possibile utilizzo, a fini di piani di edilizia popolare, di un fondo di 560 milioni tra il 2028 e il 2030: ma era un fondo già stanziato nella legge di bilancio dello scorso anno, che è stato semplicemente confermato.

5) I centri in Albania, di nuovo

«Funzioneranno», aveva assicurato Meloni nel dicembre del 2024, parlando dei centri per migranti in Albania. «Il modello Albania funzionerà», ha ripetuto Meloni alla Camera questo dicembre. Dal che si capisce che no, neppure nel 2025 ha funzionato. E nel 2026 forse, ma ancora non si sa. Nel frattempo il numero degli sbarchi di persone migranti dal Mediterraneo si è stabilizzato: ci sono stati 66.296 arrivi nel 2025, una ventina in più rispetto al 2024, e sostanzialmente in linea coi 67.040 registrati nel 2021, l’ultimo anno prima dell’arrivo del governo Meloni.

6) Il piano per le carceri
Ultimamente l’emergenza umanitaria del sovraffollamento carcerario è stata richiamata spesso anche dal presidente del Senato Ignazio La Russa, che è dello stesso partito della presidente del Consiglio. Meloni a gennaio aveva promesso «7.000 nuovi posti in tre anni, a partire dal 2025». A novembre il suo sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, aveva rilanciato: 11.000 nuovi posti entro la fine del 2027. Da quando Meloni ha fatto quell’annuncio i nuovi posti, secondo i dati del ministero della Giustizia aggiornati al 26 novembre, sono stati 479. Contando anche quelli che si stima siano stati consegnati in tutto l’anno, si arriva a circa 650.

– Leggi anche: Cosa non torna nel piano del governo per risolvere il sovraffollamento in carcere

7) Le pensioni
Rientra invece nella categoria delle battaglie storiche del centrodestra la riduzione dell’età pensionabile. Nell’agosto del 2022 Salvini aveva esortato i suoi elettori a spernacchiarlo se nel giro di un anno, arrivato al governo, non avesse abolito la legge Fornero, da lui contestata in modo violento per oltre un decennio.

Di anni ne sono passati più di tre: ma anche il 2025 si è concluso senza alcuna abolizione della legge Fornero, e anzi con un generale inasprimento dei parametri per il pensionamento anticipato. Dal 2027, inoltre, il governo prevede un ulteriore innalzamento dell’età pensionabile: l’esatto contrario di quello che era stato promesso.

8) Le accise
Nella stessa categoria va incluso anche l’impegno di Meloni per la riduzione delle accise sui carburanti. Nel 2019 la leader di Fratelli d’Italia ne chiedeva la progressiva abolizione, definendole uno scandalo e una vergogna. Anche nel terzo anno del suo governo, come già nei due precedenti, Meloni ha introdotto invece un aggravio complessivo delle accise.

La legge di bilancio prevede, a partire dal primo gennaio, un allineamento di quelle sulla benzina e di quelle sul gasolio: le prime scenderanno di 4,05 centesimi al litro, le seconde aumenteranno in modo corrispondente, così che entrambe si fisseranno a 672,90 euro per 1.000 litri di benzina (poco più di 67 centesimi a litro). Da questa rimodulazione, in virtù del maggior consumo di gasolio rispetto alla benzina, lo Stato incasserà 587 milioni di euro in più nel 2026, e più di 1,3 miliardi complessivi fino al 2028.

Analogamente aumenteranno anche le accise sul tabacco: da 29,5 a 32 euro per mille sigarette nel 2026, e poi 35,50 euro nel 2027 e 38,50 euro a partire dal 2028. Ne conseguirà un maggior gettito di 213 milioni di euro per l’anno prossimo, 466 milioni nel successivo e 797 milioni nel 2028.

9) La riduzione delle tasse
Nella politica fiscale il governo Meloni viene meno a un proposito tante volte ribadito dai partiti del centrodestra: la riduzione delle tasse. Considerando le misure introdotte nel 2025, la pressione fiscale sale infatti al 42,8 per cento, il tasso più alto da dieci anni a questa parte, laddove in passato la proposta di Meloni era stata quella di introdurre un limite costituzionale del 40 per cento.

Questo poco onorevole record viene paradossalmente conseguito inasprendo le imposte di cui il centrodestra predicava l’abolizione nel suo programma elettorale del 2022, come l’IRAP (imposta regionale sulle attività produttive, aumentata per banche e assicurazioni) che Silvio Berlusconi definiva «l’imposta rapina» e la “Tobin tax”, quella sulle transazioni finanziarie, che la Lega definiva «distorsiva» e per questo ne invocava la soppressione.

10) Il sostegno alla natalità
Un altro punto su cui il governo Meloni è venuto meno alle promesse è un’altra storica battaglia del centrodestra: quella per la natalità. A luglio il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti lasciò intendere che stava lavorando all’introduzione di una «super detrazione» per le madri: 2.500 euro per il primo figlio, e ulteriori 5.000 euro per ciascun altro figlio. Ci aveva già provato l’anno precedente, e quello prima ancora, promettendo nuove poderose agevolazioni fiscali per le famiglie numerose, che sarebbero costate intorno ai 5 miliardi di euro.

Non se ne fece nulla nel 2023 e nel 2024, e non se ne è fatto nulla neppure quest’anno. La misura più consistente su questo tema è l’aumento da 40 a 60 euro mensili del bonus per le madri che abbiano almeno due figli e un reddito ISEE (calcolato cioè con questo specifico indicatore) non superiore a 40mila euro annui, fino al compimento del decimo anno del figlio più piccolo (o diciottesimo anno, se si hanno almeno tre figli). Il costo complessivo dell’intervento è di 630 milioni di euro.