«Lo assaggio per augurio, dai»
Storia del cotechino: brutto, grasso, per qualcuno ripugnante, per molti inevitabile

Il momento più divisivo del cenone di Capodanno arriva sempre verso la fine, quando viene posizionata al centro del tavolo una portata che genera un senso di repulsione in metà degli ospiti e un grande entusiasmo nell’altra. Raramente viene consumata per intero: in genere ognuno ne prende giusto un assaggio, più per rispondere a una consuetudine sociale che per autentico desiderio. Ma tra i commensali c’è sempre una piccola minoranza che lo considera una vera prelibatezza, e arriva addirittura a fare il bis.
È il momento del cotechino con le lenticchie, un piatto che fa parte dei menù di Capodanno della stragrande maggioranza delle famiglie italiane, e che viene consumato soltanto il 31 dicembre. È anche la portata più “esoterica” delle vacanze natalizie, nel senso che viene associata a tutta una serie di credenze popolari: anche chi lo disprezza profondamente spesso vince l’avversione e decide di assaggiarne un pezzetto, perché convinto che farlo porti fortuna e benessere o viceversa che non farlo porti male. «Non mi piace, ma lo assaggio per augurio» è una frase che ricorre immancabilmente a fine cenone.
In alcuni posti viene chiamato “zampone”, una pietanza sostanzialmente identica. La differenza principale è infatti l’involucro: in entrambi i casi si tratta di un impasto di carne suina, cotenna e grasso, tritati finemente e insaporiti con spezie, che viene poi insaccato in un budello di maiale (nel caso del cotechino) o nella zampa anteriore dell’animale, svuotata e ripulita e tritati più grossolanamente (nel caso dello zampone). Anche le lenticchie che lo accompagnano vengono generalmente considerate un segno propiziatorio. Questa leggenda è dovuta principalmente alla loro forma, che ricorderebbe quella delle monete e rappresenterebbe quindi un auspicio di ricchezza e abbondanza per l’anno nuovo.
La diffidenza nei confronti del cotechino è dovuta principalmente al colore spento e alla consistenza gelatinosa della carne, che possono risultare poco invitanti soprattutto per chi non ha familiarità con questo tipo di cucina. La percezione negativa che se ne ha è poi dovuta al fatto che è una portata molto grassa, composta da tagli del maiale poco nobili e consumati più raramente.
Secondo una ricostruzione molto diffusa, questa tradizione culinaria sarebbe nata a Mirandola, in provincia di Modena. Le sue origini vengono collocate tra il 1510 e il 1511, durante l’assedio della città da parte delle truppe pontificie guidate da papa Giulio II. In quel contesto, gli assediati sarebbero stati costretti a macellare i maiali per impedire ai nemici di impadronirsene e avrebbero deciso di insaccarne la carne. Da questa pratica sarebbe nato dapprima lo zampone, mentre in un secondo momento l’insaccatura nel budello avrebbe dato origine al cotechino.
Questa versione si basa su una tradizione tramandata nel tempo e ripresa da fonti divulgative, più che su documenti dell’epoca. E viene rilanciata soprattutto dai consorzi di promozione modenesi, che la utilizzano come strategia di marketing.
Le prime attestazioni scritte sono molto più tarde: un riferimento compare in un calmiere del 1745, cioè un elenco pubblico dei prezzi dei beni alimentari stabiliti dalle amministrazioni locali, che dimostra come il prodotto fosse già commercializzato e venduto. Una descrizione più precisa della preparazione si trova invece nel 1841 nell’opera di Vincenzo Agnoletti, cuoco e autore di un importante manuale di cucina dell’Ottocento. Già nel 1761, comunque, il poeta modenese Tigrinto Bistonio aveva dedicato alla pietanza un componimento.
A un certo punto, il cotechino si è innestato su una tradizione molto più antica. Già nell’antica Roma era diffusa infatti l’usanza di regalarsi sacchetti di lenticchie nell’ultimo giorno dell’anno, come augurio di prosperità e abbondanza.
Il cotechino come piatto di Capodanno si diffuse inizialmente nel Nord Italia, dapprima in Emilia-Romagna e poi nelle regioni limitrofe, dove la preparazione venne adattata alle diverse tradizioni gastronomiche locali.
In Veneto e in Friuli Venezia Giulia, per esempio, l’impasto è realizzato utilizzando parti del maiale differenti, in particolare il muso: prende il nome di “musetto” e, oltre alle lenticchie, è spesso accompagnato anche dalla polenta.
Oggi è consumato un po’ ovunque. C’è chi lo prepara ancora in casa, seguendo ricette tramandate da generazioni e facendolo cuocere per un paio d’ore, e chi invece (la stragrande maggioranza delle persone) lo acquista già confezionato al supermercato, spendendo una decina d’euro e limitando la cottura a una mezz’oretta scarsa.
Come molti altri piatti poveri e legati alla tradizione, negli anni anche il cotechino è stato oggetto di interpretazioni più raffinate e moderne. Uno dei suoi più noti estimatori è lo chef Massimo Bottura, che essendo di Modena lo considera un piatto identitario e legato alle sue origini. Nei suoi ristoranti, però, propone una versione decisamente più “elegante” e altolocata, sgrassata al vapore per alleggerirne la gelatinosità e la consistenza.
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