I bambini dovrebbero passare più tempo da soli
Le preoccupazioni degli adulti e altri fattori limitano da tempo un’esperienza umana fondamentale per lo sviluppo dell’autonomia

In una delle strisce a fumetti più popolari di sempre, Calvin & Hobbes, il bambino protagonista e la sua tigre di pezza, sono spesso impegnati nel loro gioco preferito all’aria aperta: lanciarsi giù per un declivio su un instabile carretto a quattro ruote, che finisce sempre per ribaltarsi. È uno dei tanti particolari da cui si evince l’età della striscia, uscita tra gli anni Ottanta e Novanta: oggi sarebbe alquanto difficile far passare quell’attività fuori casa, solitaria e non sorvegliata, per un credibile gioco di bambini.
Della progressiva riduzione del tempo che i bambini dedicano a giocare da soli si discute da anni. È un fenomeno comune a diversi paesi occidentali e messo in relazione con altri, soprattutto con la tendenza dei genitori a programmare scrupolosamente ogni attività dei figli e a essere molto presenti nelle loro vite: un modello di genitorialità a volte definito, in ambito anglosassone, con l’espressione “genitori elicottero”.
Anche la pandemia è spesso citata come un fattore influente, perché ha contribuito ad accrescere nei genitori la preoccupazione che l’isolamento fisico forzato potesse privare i bambini di opportunità di socializzazione fondamentali. Che era ed è una preoccupazione comprensibile e fondata. D’altra parte la ricerca in psicologia dello sviluppo descrive come fondamentale anche l’esperienza della solitudine, perché soltanto nel tempo in cui restano da soli i bambini acquisiscono una piena e normale autonomia emotiva e sviluppano capacità di concentrazione e programmazione.
Alcuni studi mostrano che persino da neonati, nei primi due mesi di vita, i bambini segnalano un bisogno di distacco: in alcuni momenti interrompono il contatto visivo, per esempio, e piangono se chi li accudisce cerca di attirare di nuovo la loro attenzione e di coinvolgerli in altre attività. Dai cinque o sei anni in poi, anche in base ai caratteri e alle attitudini individuali, alcuni tendono a isolarsi dopo compiti impegnativi, per disegnare, leggere o dedicarsi ad altre attività solitarie.
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Uno dei motivi per cui i bambini cercano di rimanere da soli in alcuni momenti è che hanno bisogno di elaborare emozioni difficili da gestire e imparare dai loro errori. Succede, per esempio, quando vengono sgridati da un genitore e corrono a chiudersi nella loro cameretta. Se lì ci fosse una telecamera nascosta, probabilmente li vedremmo inscenare l’interazione che hanno appena avuto, con una bambola nella parte del genitore che li ha sgridati, disse all’Atlantic lo psicologo canadese Robert Coplan, citando un comportamento infantile da lui osservato spesso in contesti sperimentali.
Per gran parte della storia dell’umanità i bambini hanno avuto molte opportunità di trascorrere parti della giornata da soli o con i loro coetanei. È un’esigenza diffusa e documentata nella maggior parte delle società umane, dove i bambini tendono fin da molto piccoli a esplorare l’ambiente e giocare tra pari lontano dagli adulti. Oltre che per elaborare emozioni e apprendere nuove informazioni, lo fanno anche per imitare attività tipiche degli adulti nella cultura di riferimento.
Possono anche essere attività pericolose, se osservate da altre prospettive. Per esempio tra gli Aka, un gruppo di cacciatori-raccoglitori nomadi delle foreste pluviali del Congo, i bambini imparano molto presto a utilizzare lame e coltelli necessari per tagliare piante e rami, e farsi spazio nella vegetazione. Ma il bisogno e la capacità dei bambini di stare da soli, indipendentemente dalla pericolosità dell’attività che svolgono in quei momenti, sono attestati anche nelle società industrializzate.
In diversi paesi occidentali le cose cambiarono nella seconda metà del Novecento, quando si diffuse tra gli adulti una tendenza a considerare i bambini vulnerabili e a sentire il bisogno di proteggerli molto più di quanto si facesse prima: bisogno influenzato anche dalla circolazione e amplificazione di notizie di aggressioni e rapimenti. La supervisione costante diventò la norma sociale più condivisa tra i genitori, che rispetto al passato erano anche più consapevoli – e preoccupati – di quanto le esperienze dei bambini piccoli potessero condizionare il loro sviluppo a lungo termine.
Da queste attenzioni deriva anche la paura di molti genitori che qualsiasi momento privo di attività scolastiche o extrascolastiche nella giornata dei figli sia un’occasione persa per farli socializzare con altri bambini o per migliorare qualche loro capacità cognitiva, artistica o di altro tipo. Solo in tempi molto recenti, e per effetto di vari fattori contestuali, questa convinzione è stata in parte contrastata in alcuni casi da una tendenza opposta a lasciare che i bambini si annoino nel loro tempo libero.
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A parte le preoccupazioni dei genitori, l’urbanizzazione è un altro fattore citato spesso nel dibattito, tra le cause della progressiva riduzione degli spazi e quindi delle opportunità per i bambini di trascorrere del tempo da soli. Alcuni sondaggi mostrano che fin dagli anni Settanta in diversi paesi, inclusa l’Italia, i bambini hanno cominciato ad andare meno spesso da soli a scuola o altrove. Lo spopolamento dei piccoli centri abitati e il cambiamento degli stili di vita, tra le altre cose, hanno reso gli adulti sempre più dipendenti dalle macchine, tanto per andare al lavoro quanto per accompagnare i figli da qualche parte.
La riduzione dell’indipendenza dei bambini precede quindi storicamente l’avvento di Internet e dei social, ma è probabile che ci sia comunque una relazione significativa tra i due fenomeni. Come ha ipotizzato l’antropologa cognitiva Eli Stark-Elster, è possibile che i bambini trascorrano molto tempo con gli smartphone non solo perché le applicazioni sono progettate per attirare e trattenere la loro attenzione, ma perché di fatto lo «spazio digitale» è l’unico rimasto a disposizione dei bambini per crescere lontano dagli adulti.
È abbastanza un controsenso, dice lei. Nella realtà fisica di molti paesi occidentali i bambini sono iperprotetti, a un livello quasi grottesco, mentre in quella digitale non sono sorvegliati per niente. È normale quindi che trascorrano lì la maggior parte del tempo, con tutte le implicazioni note sulle loro capacità di attenzione e sulla loro salute mentale. Forse non lo farebbero, se avessero alternative. Secondo un recente sondaggio della società The Harris Poll su bambini statunitensi di 8-12 anni, per esempio, quasi tre quarti di loro dicono che preferirebbero trascorrere la maggior parte del tempo insieme di persona anziché insieme su schermi e dispositivi.
Il tempo trascorso sugli smartphone si presta peraltro a un possibile equivoco: pensare che, tutto sommato, anche quello sia tempo che i bambini trascorrono da soli. Di fatto non è così, e anzi i social media possono limitare ulteriormente i benefici della solitudine. Dedicarsi a questo tipo di esperienza fondamentale per lo sviluppo, disse Coplan all’Atlantic, significa vivere temporaneamente «fuori scena», in uno spazio senza aspettative sociali. Praticamente il contrario di chattare con gli amici e curare il proprio profilo sui social.
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