Perché accettiamo di farci sfruttare?
È la domanda che si fa Raffaele Alberto Ventura nel suo nuovo saggio "La conquista dell’infelicità"
Nel suo nuovo libro La conquista dell’infelicità, pubblicato da Einaudi, il saggista Raffaele Alberto Ventura racconta com’è cambiato il rapporto col lavoro della classe media del settore terziario, dei liberi professionisti sotto a un certo reddito e dei creativi che scelgono il lavoro inseguendo un senso di realizzazione personale al di là del guadagno economico. Lo fanno accettando di essere pagati molto meno di un tempo, scambiando più o meno serenamente la promessa di riconoscimento, visibilità e gratificazione a cui ambiscono con un certo grado di sfruttamento.
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La notte di capodanno, una ragazza lavora al computer mentre fuori dalla finestra esplodono fuochi d’artificio. L’illustrazione di Bianca Bagnarelli figura sulla copertina dell’ultimo numero del 2023 del «New Yorker», la popolare rivista americana che in un celebre saggio Clement Greenberg malignamente definiva «high-class kitsch for the luxury trade». L’opera, intitolata Deadline, si presta a una duplice lettura: si tratta della denuncia dello sfruttamento di una classe di lavoratori precari, ai quali la stessa autrice appartiene, oppure del lamento stonato di un’élite di lavoratori del terziario avanzato, quelli che comprano la rivista?
Chi è davvero la ragazza dell’illustrazione: una freelance obbligata a cumulare troppi lavori, un’impiegata che ha ottenuto lo smart working, una manager senza orari da ufficio, oppure uno strano mix di tutte queste cose? Quel che è certo è che un numero crescente di persone, a partire da chi scrive, può riconoscersi in quella situazione, che per ognuno costituisce un diverso intreccio di pro e di contro. L’illustrazione di Bagnarelli è la fotografia della classe media disagiata.

Poteva anche essere Ferragosto oppure il Primo Maggio, ricorrenze che sempre più spesso ci capita di passare in casa, col laptop sulle ginocchia, a lavorare. La pandemia del 2020 ha accelerato un processo, già in atto da un paio di decenni, di confusione tra lavoro e ozio. Confusione spaziale innanzitutto, dal momento che il lavoro da remoto trasforma in ufficio persino la camera da letto. E confusione temporale, sicché sono diventate comuni le serate di famiglia in cui ciascuno in silenzio se ne sta curvo a scrivere mail, le domeniche interrotte da chiamate di lavoro e i giorni di festa impegnati a chiudere un progetto.
È come se il lavoro, che le lotte operaie del secolo precedente erano riuscite a circoscrivere entro spazi, tempi, regole sempre più stringenti, fosse infine riuscito a svincolarsi per riconquistare il dominio perduto sulle nostre esistenze. A fronte di un trend globale, negli ultimi 150 anni, di diminuzione delle ore lavorate, assistiamo oggi a un fenomeno di «messa al lavoro» del tempo libero in forme capillari che spesso sfuggono alla misura quantitativa. Non c’è dubbio che la condizione di impiegati nel terziario, freelance o professioni creative sia di gran lunga migliore rispetto a quella dei proletari della rivoluzione industriale, e tendenzialmente privilegiata rispetto a tanti altri lavoratori contemporanei. Ma la gabbia dorata del terziario può rivelarsi parecchio angusta. L’intrusione del lavoro nel contesto domestico ha effetti documentati sui diritti dei lavoratori cognitivi, che faticano a proteggersi dal sovraccarico di mansioni, e quindi sulla loro salute fisica e mentale – gli effetti più frequenti sono esaurimento nervoso, ansia e burnout. È la più classica scena da film horror: la vittima fugge da una minaccia e si rinchiude in casa, convinta finalmente di essere al sicuro dietro quattro mura. Ma è troppo tardi, perché il male è già dentro, lì con lei. Nello smartphone su cui guarda l’ora, sul computer che manda una serie tv in streaming, nel calendario condiviso, ovunque. (…)
Cosa spinge dunque molti giovani ambiziosi a investire tempo e risorse in progetti professionali tanto ingrati, in cambio forse soltanto di qualche briciola di status? Il sociologo Max Weber può darci una risposta, anche se scriveva oltre un secolo fa: è colpa del Beruf. Ovvero della «vocazione», che in tedesco vuol dire anche «professione», una sovrapposizione di significati che contraddice l’esperienza di molti (creativi o ristoratori, giornalisti o makers…) che proprio non riescono a fare della loro vocazione una vera professione, cioè a camparci. Weber metteva il concetto di Beruf al cuore della sua descrizione dell’etica protestante come condizione dell’ascesa del capitalismo: ma quel Beruf prevedeva appunto che alla vocazione corrispondesse un guadagno economico. Il Beruf della classe media disagiata, invece, corrisponde innanzitutto a un bisogno di riconoscimento: essere grafico, designer, artista, giornalista, scrittore, oppure imprenditore o sportivo, anche a costo di buttarsi a capofitto in un mercato già saturo.
Molto foolish, come direbbe Steve Jobs: ma al Beruf non si resiste. È come un imprinting, una seconda natura che ci portiamo addosso come una croce, un male incurabile che abbiamo contratto a forza di leggere libri e guardare film. Il problema è che non siamo tutti Steve Jobs, e proprio come i protestanti di Weber avremmo bisogno di «criteri sicuri per stabilire se facciamo parte degli eletti». In assenza dei quali ci limitiamo a correre tutti quanti verso il precipizio come i lemming in quel vecchio videogioco. La realizzazione personale assomiglia sempre di più a un gioco d’azzardo. Nessuno è disposto ad ammetterlo, proprio come quei giocatori accaniti che si convincono di avere scoperto il segreto per battere il caso: una martingala. Il termine «martingala» indica, a partire dal Settecento, una strategia che permetterebbe di vincere sempre ai giochi d’azzardo. La logica è semplice: ogni volta che si perde, si raddoppia la puntata, così che alla prima vincita si recuperano tutte le perdite precedenti e si ottiene un piccolo guadagno. La promessa implicita è quella di una vittoria certa, a patto di avere abbastanza risorse – e abbastanza tempo – per resistere. Il trucco sembra semplice, quasi infallibile; e invece porta sistematicamente alla rovina. La martingala funziona solo in teoria, perché nella pratica ogni giocatore ha un limite: di denaro, di pazienza, o di tempo. E prima o poi si arriva a quel limite.
Qualcosa di simile accade nel mercato del lavoro: per conquistare una posizione professionale stabile, si investe in modo crescente in capitale sociale, culturale, simbolico. Si collezionano titoli, competenze, reti di relazioni. È la martingala del successo. Si lavora pagati in «visibilità», ovvero gratis, come solo chi è ricco (o molto ingenuo) può permettersi di fare, per costruire quelle che gli studiosi chiamano delle portfolio careers attraverso continui investimenti in self-branding, proprio come farebbe una multinazionale che lancia un prodotto con ingenti spese pubblicitarie. Ogni investimento è un rilancio, una puntata successiva nella speranza che sia quella buona. Come nella martingala, la logica è quella della resistenza: chi riesce a tenere più a lungo, chi non si ritira, alla fine «vince». Ma proprio come nel gioco, anche qui il rischio è che non ci sia nessuna vittoria assicurata. La maggior parte dei giocatori, arrivati al limite delle proprie risorse, va in bancarotta. (…)
Siamo poi così sicuri che la ragazza disegnata da Bagnarelli stia lavorando? Da quello che vediamo sullo schermo del computer, di certo non sta giocando a un videogame né sembra stare su un social network. Forse sta scrivendo mail, mettendo in ordine file oppure compilando un foglio di calcolo, ma questo non risolve la questione: oggigiorno si apre un foglio di calcolo anche solo per organizzare le vacanze. Il titolo dell’illustrazione, Deadline, è certo più esplicito. Ma in fondo quante deadline ci diamo per progetti vocazionali dai quali non traiamo nessun guadagno immediato? (…)
Nei Demòni, Dostoevskij fa riferimento al «principe Harry» di Shakespeare, ovvero il futuro Enrico IV d’Inghilterra, per indicare un giovane di buona famiglia che nei propri anni di gioventù si incanaglisce nelle taverne e vive nei bassifondi, paradossalmente facendosi le ossa per quando diventerà classe dirigente. Oggi ci sono tanti principi Harry ma anche tanti suoi compagni di bevute meno privilegiati che, pur imitandone le abitudini, non si realizzeranno. (…)
Una delle grandi leggi della realizzazione personale, citata in centinaia di libri, recita: «Fake it till you make it». È la traduzione in predicozzo della martingala del successo: investi tutto quello che puoi per simulare il risultato che vuoi ottenere, e lo otterrai. Oggi, sembra essere diventato il blasone della classe disagiata. Fateci caso: a prendere sul serio le presentazioni degli altri – «faccio lo scrittore», «il fotografo», «il blogger», «il Ceo presso me stesso»… – viene da chiedersi se sia rimasto qualcuno a obbedire alla cruda ragione economica, a svegliarsi prima delle otto e a scaldare la sedia in ufficio fino al tramonto. La verità è che in tempo di crisi è gratificante definirsi attraverso le proprie ambizioni, seppure non ancora compiutamente realizzate.
Ma chi può permettersi di fingere così a lungo? Le carriere vocazionali, di tutta evidenza, sono principalmente riservate a chi se le può permettere perché ha altre fonti di reddito: famiglia, un lavoro o una carriera collaterali che alimentano e sono alimentati dall’attività creativa o imprenditoriale. Questo permette la fioritura – in qualche modo artificiale – di un’offerta particolarmente ricca, anche se economicamente non sostenibile, facendo dell’Italia un Paese con una ricca vita culturale malgrado la stagnazione della sua economia. (…)
Insomma è tutto da rifare, da riprendere da capo, perché per molti aspetti ci troviamo all’alba del XXI secolo in una situazione simile a quella della prima rivoluzione industriale, con il ritorno di pratiche come il mercanteggiamento dei salari, il cottimo e le filiere di subfornitura, che ritroviamo oggi nell’economia digitale, vera terra selvaggia dove il diritto del lavoro fa fatica ad addentrarsi. Perché c’è un solo sciopero che potrebbe paralizzare questi meccanismi di sfruttamento e autosfruttamento: è lo sciopero delle aspirazioni.
C’era una volta il Capodanno, il Natale, Ferragosto, e oggi anche quelle sono spesso giornate di lavoro per la classe disagiata. C’era una volta il Primo Maggio, la festa dei lavoratori: un giorno di non-lavoro istituito in ricordo delle lotte operaie che avevano portato a fissare per legge, in America nella seconda metà dell’Ottocento, un massimo di otto ore lavorative quotidiane. Oggi sta a noi reinventare queste ricorrenze e riconquistarne la sacralità inoperosa. (…) Tracciare un limite, un campo di forza, un pentacolo disegnato col gesso per proteggere noi stessi e gli altri dal lavoro.

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