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  • Venerdì 21 novembre 2025

La Cina si sta prendendo la leadership sul clima

Grazie ai suoi eccezionali investimenti sulla transizione energetica, e per le carenze di Europa e Stati Uniti

Un operaio installa pannelli fotovoltaici a Wuhan, maggio 2017
Un operaio installa pannelli fotovoltaici a Wuhan, maggio 2017 (Kevin Frayer/Getty Images)
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Alla COP30 di quest’anno, la conferenza delle Nazioni Unite sul clima, per la prima volta non c’era una delegazione ufficiale degli Stati Uniti. Il presidente Donald Trump è contrario alle misure per contrastare il riscaldamento globale, che ha definito «una truffa portata avanti da persone con intenzioni malvagie», e ha deciso di boicottare la COP, abbandonando il ruolo di leadership che spesso gli Stati Uniti avevano ricoperto. Ora che gli Stati Uniti si sono ritirati, e che l’Europa è in difficoltà, la Cina sta cercando di prendersi la leadership nella transizione climatica.

Potrebbe sembrare controintuitivo. La Cina è il paese che genera più emissioni di gas serra al mondo (ma solo in termini assoluti: se si calcolano le emissioni per persona, è superata dagli Stati Uniti e da molti altri paesi), e viste le dimensioni della sua economia il suo eccezionale sviluppo industriale degli ultimi decenni è stato spesso considerato come uno dei principali ostacoli per la transizione energetica.

In realtà ormai da qualche anno, grazie ai suoi enormi investimenti nelle tecnologie per la produzione di energia da fonti rinnovabili, la Cina è uno dei paesi che stanno contribuendo maggiormente alla transizione non soltanto propria, ma anche in altre aree del mondo. Il Wall Street Journal – quindi un giornale statunitense di orientamento conservatore – ha scritto negli scorsi giorni un articolo in cui racconta che la Cina «sta salvando l’accordo di Parigi», il più grande accordo mondiale sulla limitazione delle emissioni inquinanti. L’Economist, un altro giornale non sempre tenero con la Cina, l’ha definita «la superpotenza dell’energia rinnovabile».

Pannelli solari nella provincia cinese dello Shanxi

Pannelli solari nella provincia cinese dello Shanxi (AP Photo/Sam McNeil)

La Cina ha assunto questo ruolo non per sincero spirito ecologista, benché la preoccupazione per gli effetti del cambiamento climatico sia ben presente anche nella leadership del Partito Comunista. Lo ha fatto soprattutto per questioni di indipendenza energetica, politica industriale e influenza all’estero. La transizione energetica cinese inoltre è ancora incompleta e piena di problemi, perché la principale fonte di energia del paese rimane il carbone. Ma il risultato complessivo è che oggi, soprattutto in buona parte dei paesi in via di sviluppo, la Cina ha assunto la leadership sulle questioni ambientali, mentre gli Stati Uniti e l’Europa sono rimasti indietro.

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Cominciamo con alcuni dati. Nel 2023 e nel 2024 la Cina ha installato sul proprio territorio due terzi della capacità solare ed eolica di tutto il mondo. Nei primi sei mesi del 2025, secondo il centro studi EMBER, la Cina ha installato pannelli solari per circa 250 gigawatt. Significa che in sei mesi ha installato maggiore potenza fotovoltaica di quanto gli Stati Uniti abbiano fatto nella loro storia, e il doppio di quella totale della Germania.

Questo aumento delle rinnovabili è molto più rapido delle attese, comprese quelle dello stesso governo cinese. Nel 2015, nell’ambito degli accordi di Parigi, la Cina promise che avrebbe raggiunto il 20 per cento di consumo di energia da fonti rinnovabili «verso il 2030», ma la soglia è già stata superata quest’anno, con largo anticipo. È poco meno del livello raggiunto dalla Germania, il cui consumo di energia da fonti rinnovabili è vicino al 25 per cento.

Ci sono inoltre stime affidabili secondo cui le emissioni inquinanti totali della Cina potrebbero avere ormai raggiunto il picco, o essere in procinto di raggiungerlo, e dovrebbero quindi cominciare a scendere come stanno facendo gli Stati Uniti, il Canada e l’Unione Europea, per quanto più lentamente delle promesse.

A questo si aggiunge un’opera piuttosto eccezionale di elettrificazione delle infrastrutture e di vari altri settori importanti, dall’industria ai trasporti. Elettrificare significa convertire processi e dispositivi per funzionare a energia elettrica, e questo è importante perché l’energia prodotta con le rinnovabili è tutta elettrica. L’anno scorso in Cina sono stati venduti i due terzi di tutti i veicoli elettrici prodotti nel mondo, e oggi nelle città cinesi, almeno quelle più grandi, circola una quantità di auto elettriche impensabile non soltanto negli Stati Uniti, ma anche nella maggior parte dei paesi europei. La differenza è immediatamente percepibile, perché le auto elettriche sono molto più silenziose di quelle con motore a scoppio.

– Ascolta Globo: Guiderai un’auto cinese

La Cina sta contribuendo all’adozione di rinnovabili anche all’estero. Le sue aziende, anche grazie a ingenti sussidi di stato, stanno investendo miliardi di dollari per costruire impianti eolici o fotovoltaici in paesi come il Brasile, l’India e il Vietnam. Il Marocco sta creando la sua prima fabbrica di batterie elettriche. Santiago, la capitale del Cile, ha elettrificato più della metà della sua flotta di autobus, quasi tutti forniti da aziende cinesi. In Nepal oggi acquistare un’auto elettrica è più economico che acquistare un’auto con motore a scoppio, e il grosso dei veicoli è cinese.

Probabilmente uno dei maggiori contributi della Cina alla transizione energetica riguarda i costi di produzione delle rinnovabili, che sono calati molto più delle previsioni grazie all’intensa concorrenza (sia esterna sia interna) delle aziende cinesi. Per esempio il costo di produzione dell’energia solare è oggi la metà di quanto fosse stato previsto dieci anni fa.

Abbassare i costi di produzione ha eliminato uno dei principali problemi delle rinnovabili, il fatto di essere poco competitive economicamente rispetto agli altri metodi di produzione di energia. Ora l’eolico e soprattutto il solare sono generalmente convenienti, e questo ha consentito una loro adozione più massiccia del previsto, non soltanto in Cina ma in tutto il mondo.

Piano con gli entusiasmi
Nonostante gli importanti avanzamenti degli ultimi anni, è presto per parlare di un successo della Cina nella transizione energetica. La quota di energia generata da fonti rinnovabili è ancora minoritaria, e la Cina continua a produrre la gran parte della sua energia bruciando carbone (che è estremamente inquinante) e petrolio.

Una centrale a carbone nella provincia dello Hubei

Una miniera di carbone nella provincia dello Hubei (Getty Images)

Ciò significa, tra l’altro, che anche parte dell’energia usata per le auto elettriche, per i treni veloci e per altre tecnologie considerate sostenibili è in realtà prodotta da fonti fossili. Questo è comune a quasi tutti i paesi del mondo (sono pochissimi quelli che producono tutta la loro energia elettrica dalle rinnovabili, e nessuna delle grandi economie), ma indebolisce la pretesa della Cina su una leadership climatica globale. Anche i recenti impegni annunciati dalla Cina per la riduzione delle proprie emissioni (una riduzione tra il 7 e il 10 per cento entro il 2035), benché siano stati accolti in maniera positiva, non sono ritenuti sufficienti per mantenere l’aumento della temperatura media globale annua entro la soglia di 1,5 °C in più rispetto all’epoca preindustriale, cioè la soglia fissata dall’Accordo di Parigi.

A questo si aggiunge il fatto che, oltre a costruire con grande rapidità impianti eolici e fotovoltaici (assieme a impianti nucleari e idroelettrici), anziché dismettere le vecchie centrali a carbone la Cina ne sta costruendo di nuove. Nel 2024 la costruzione di nuove centrali a carbone ha raggiunto il suo massimo in dieci anni, e sono aumentati anche gli investimenti nel settore minerario per l’estrazione del carbone.

Per capire questa mossa, che sembra in contraddizione con tutti gli investimenti nelle rinnovabili, bisogna capire perché la Cina sta facendo tutto questo.

Perché
La Cina è un paese molto esposto alle conseguenze del cambiamento climatico e il suo governo è ben consapevole che per mitigarne gli effetti più devastanti è necessario ridurre le emissioni di gas serra. Gli eccezionali investimenti in rinnovabili però non sono giustificati soltanto da ragioni ecologiche. Per la Cina è anzitutto una questione di sicurezza e indipendenza energetica.

La Cina ha sempre avuto una grossa carenza di fonti di energia proprie: ha poco petrolio e poco gas naturale, pur avendo notevole disponibilità di carbone. L’importazione di idrocarburi dall’estero ha reso possibile l’impressionante crescita economica degli ultimi decenni, ma al tempo stesso ha reso la Cina vulnerabile e dipendente dai paesi produttori.

Per ridurre questa vulnerabilità, il presidente Xi Jinping ha promosso la produzione di energia da fonti rinnovabili, come l’eolico e il fotovoltaico (ma anche l’idroelettrico e il nucleare), perché ovviamente la luce del sole e il vento sono abbondanti e non devono essere importati dall’estero.

Xi Jinping nell'ottobre del 2023

Xi Jinping nell’ottobre del 2023 (AP Photo/Ng Han Guan)

Lo stesso però vale anche per il carbone, che è abbondante, ampiamente disponibile nel paese e non dipende nemmeno dalle condizioni climatiche. Ed è per questo che la Cina continua a costruire e mettere in uso nuove centrali a carbone: è una specie di rete di sicurezza per mantenere la propria indipendenza energetica anche nel caso in cui gli investimenti nelle rinnovabili non dovessero essere efficaci quanto sperato.

Le rinnovabili hanno però un vantaggio ulteriore: sono una tecnologia che la Cina domina. Il paese produce circa il 90 per cento dei pannelli solari del mondo, e il suo mercato delle automobili elettriche è ineguagliato. Oggi un paese che voglia adottare tecnologie rinnovabili o elettrificare le proprie infrastrutture e servizi deve passare per forza dalla Cina. Le rinnovabili in un certo senso possono consentire alla Cina di trasformarsi da un paese dipendente dal punto di vista energetico a un paese capace di creare dipendenza.

Gli investimenti nelle rinnovabili hanno anche ragioni economiche. Per rispondere al rallentamento della crescita negli ultimi anni, il governo ha adottato una strategia di forte rilancio dell’attività produttiva, e uno dei settori a cui è stato dato maggiormente impulso è quello delle tecnologie per la transizione energetica. Se la Cina è riuscita a dominare il settore delle rinnovabili e ad abbassare i costi di produzione, è anche grazie all’enorme afflusso di sussidi pubblici e finanziamenti privati.

Questo però sta portando a distorsioni perché le aziende cinesi, approfittando dei moltissimi sussidi e incentivi, hanno finito per produrre più di quanto il mercato potesse assorbire. Alcune di loro hanno cominciato ad avere difficoltà economiche e a fallire. Altre stanno esportando all’estero la loro produzione in eccesso, e questo giustifica parte dei grandi progetti energetici promossi dalla Cina a livello internazionale.

L’Europa
Per la Cina assumere una leadership climatica internazionale è una questione soprattutto politica. Significa aumentare la propria influenza all’estero, ottenere controllo sulle economie che usano le sue tecnologie e aumentare il proprio prestigio soprattutto tra i paesi in via di sviluppo. È comprensibile che molti paesi guardino con sospetto a queste mosse.

Lo fa anzitutto l’amministrazione Trump, che considera l’espansione della Cina nel settore delle rinnovabili come una minaccia alla propria sicurezza nazionale. Sotto Trump, però, gli Stati Uniti hanno in gran parte rinunciato alla competizione sulle tecnologie per la transizione energetica, preferendo promuovere un modello basato sulle fonti fossili. Trump ha interrotto i sussidi pubblici ai progetti eolici e fotovoltaici, e sta autorizzando al contrario nuovi progetti di estrazione di petrolio e gas naturale in territorio statunitense. In un certo senso, gli Stati Uniti si sono tirati da soli fuori dalla corsa.

Pannelli solari galleggianti nella provincia dello Anhui

Pannelli solari galleggianti nella provincia dello Anhui (Kevin Frayer/Getty Images)

In Europa la situazione è diversa: i paesi europei non hanno rinunciato alla transizione climatica (su cui fino a un decennio fa l’Europa aveva una leadership globale) e si trovano in una posizione ambigua nei confronti della Cina. Da un lato vedono nella Cina quello che la Commissione Europea ha definito un «rivale sistemico». In questo contesto di rivalità si inseriscono per esempio i dazi che l’anno scorso l’Unione Europea ha imposto sui produttori di auto elettriche cinesi.

Dall’altro lato l’Europa sa perfettamente che al momento fare una transizione energetica senza la Cina, senza le sue tecnologie e le sue catene di approvvigionamento, è praticamente impossibile. Quasi tutto quello che serve per l’abbandono dei combustibili fossili è prodotto in Cina, dai pannelli solari alle auto elettriche. Portare queste produzioni in Occidente sarebbe economicamente sconveniente, e finirebbe sicuramente per rallentare la transizione.

Per questo l’Europa si trova davanti a un dilemma: accettare una transizione energetica fatta grazie alla Cina, oppure rallentare tutto e farla in proprio? La prima opzione ha molti sostenitori anche illustri. Per esempio il noto storico dell’economia britannico Adam Tooze, che negli scorsi anni si è molto specializzato sul tema, sostiene: «Piuttosto che piagnucolare per i sussidi [della Cina alle sue aziende] dovremmo riconoscere che la Cina è l’unico grande paese che sta portando avanti la transizione energetica a una velocità e con una scala vicine a quelle che sarebbero necessarie». Questo comporterebbe però il rischio di diventare dipendenti dalle tecnologie cinesi, e non è chiaro se l’Europa sia disposta ad assumerlo.