Chi vende su Vinted deve pagare le tasse?

Sì se lo fa in modo professionale, ma anche gli altri devono stare attenti a rispettare certe regole

(Getty Images)
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Le piattaforme online per la vendita di prodotti usati, come eBay, Vinted, Subito.it o Facebook Marketplace, hanno reso molto più facili e veloci le transazioni tra privati. Ma hanno anche creato opportunità di business: sia per chi già vendeva professionalmente oggetti usati, che online è riuscito a raggiungere un numero maggiore di clienti, sia per chi voleva iniziare a farlo senza imbastire un negozio fisico.

Dal punto di vista del fisco italiano però si è creata una zona grigia: è diventato infatti difficile distinguere tra chi vende ogni tanto cose usate perché vuole disfarsene, e quindi non dovrebbe pagarci le tasse, e chi invece lo fa per lavoro, e quindi dovrebbe. Il confine tra i due tipi di condotta è abbastanza labile dal punto di vista fiscale, al punto che pure per le persone che lo fanno per diletto non è raro arrivare a quantità che potrebbero far sospettare dell’esistenza di un’attività professionale.

Ci sono essenzialmente tre casi: quello in cui si vende in modo occasionale e non professionale, come possono essere quelle persone che decidono di vendere i loro vestiti smessi o quello che hanno trovato svuotando la cantina di una parente; quello in cui si vende in modo occasionale ma a scopo di trarne un profitto, come può succedere quando si viene in possesso di un prodotto raro e lo si vende per guadagnarci; e infine quella in cui si vende per guadagnare in modo professionale e organizzato.

Solo nel primo caso non si devono pagare le tasse, perché di fatto non c’è un’attività di impresa: è probabile peraltro che le cose in questione si vendano a un prezzo simbolico, ben al di sotto del loro valore di mercato o del loro prezzo di acquisto. Non sono dovute quindi le imposte sul reddito, cioè l’IRPEF, né l’IVA, l’imposta sulle vendite.

Il problema è quando si superano alcune soglie, che sono stabilite dalla DAC7, la normativa europea per le vendite online che in Italia è stata recepita nel 2023: sopra le 30 transazioni e i 2mila euro di ricavi all’anno le piattaforme sono obbligate a segnalarlo al fisco. Non significa in automatico che gli utenti che superano le soglie devono pagarci le tasse, ma queste sono una sorta di campanello d’allarme per le autorità fiscali nazionali, a cui le piattaforme devono inviare il resoconto delle vendite e un modulo compilato dall’utente con i suoi dati personali, fiscali e bancari.

In questi casi il fisco ragiona in modo cosiddetto induttivo: il superamento della soglia fa presumere l’attività commerciale, e sta all’utente dimostrare che non è vero in caso di accertamenti.

Massimiliano Allievi, commercialista esperto di attività online e divulgatore, spiega che in caso di controllo è utile avere le ricevute di acquisto della merce, per dimostrare che si è poi venduta a un prezzo ragionevole. In ogni caso dice che non è automatico l’arrivo del controllo una volta superata la soglia, perché per le autorità fiscali gli accertamenti sono costosi, e vengono fatti quando ne vale la pena e hanno già informazioni sufficienti e rilevanti.

Allievi comunque dice che bisognerebbe mettersi in regola anche se si vendono volumi inferiori alle soglie, ma con un approccio speculativo. In questi casi le cose cambiano a seconda della periodicità con cui si fanno le vendite: se si fanno in maniera occasionale, per esempio per la vendita di un pezzo d’arredamento d’epoca di alto valore, o in modo continuativo, in cui il venditore cerca attivamente merce da rivendere per farci un profitto.

Nel primo caso, non così comune, i redditi vanno segnalati nella dichiarazione dei redditi, nella sezione “altri redditi”: su questi ci si deve pagare l’IRPEF, cioè l’imposta sui redditi. Nel secondo caso invece c’è proprio attività di impresa: si deve aprire la partita IVA, fare la segnalazione alla Camera di Commercio, e pagare sul margine di profitto delle vendite sia l’IRPEF che l’IVA.

Il confine non è così netto come può apparire. C’è l’esempio di un caso di evasione fiscale arrivato lo scorso marzo alla Corte di Cassazione, l’ultimo grado di giudizio in Italia: un uomo era accusato di evasione per aver venduto su eBay oltre 1.600 paia di scarpe tra il 2008 e il 2009 senza dichiararle. La Cassazione ha stabilito che tale quantità facesse presupporre non solo l’intento di profitto occasionale, come aveva già stabilito il tribunale di primo grado, ma anche l’attitudine commerciale: l’uomo, cioè, aveva presumibilmente un’attività di impresa. Come rilevato anche dal rapporto del centro studi di Eurispes, questa sentenza probabilmente diventerà un precedente nei casi in cui ricapiterà di dover stabilire che quantità di merce venduta debba far presumere l’attività commerciale.

In ogni caso nella realtà le piattaforme sono piene di persone che vendono merce professionalmente ma senza dichiararlo, e che quindi poi evadono il fisco. E per chi è un compratore poco avvezzo è anche abbastanza difficile riconoscere se quel servizio di piatti lo sta comprando da una persona che sta svuotando la sua cantina o da qualcuno che invece l’ha comprato da qualcun altro per rivenderlo e guadagnarci.

Giulia Cribellati è proprietaria di DaFlea, un negozio di prodotti usati a Milano che vende molto anche online. Sostiene che nel settore la concorrenza è diventata molto difficile per via delle molte persone che vendono online senza dichiarare di essere professioniste: in questo modo saltano interi passaggi burocratici e vendono a prezzi non sostenibili per chi ha un’attività in regola.

Cribellati dice che «il nero» fa parte da sempre nel settore dell’usato, per via soprattutto dell’informalità con cui si reperisce la merce. Ma sostiene che con le piattaforme ha raggiunto una scala abbastanza preoccupante per chi fa questo mestiere. E pur riconoscendo che una maggiore diffusione delle vendite online di prodotti usati sia positiva per una sempre maggiore sostenibilità dei consumi, dice che in fin dei conti per i rivenditori professionisti è stata un danno: non solo ha falsato la concorrenza, ma ha anche contribuito a far alzare i prezzi della merce che compravano dai privati tramite le stesse piattaforme.