Come l’allattamento può ridurre il rischio di alcuni tumori al seno
Un gruppo di ricerca australiano ha trovato una risposta a un nesso noto da tempo: c'entra il sistema immunitario

Da anni si sa che la gravidanza e soprattutto l’allattamento riducono il rischio di ammalarsi di alcuni tipi di cancro al seno, ma non si era mai capito davvero perché. Ora un gruppo di ricerca dice di avere individuato il meccanismo che spiega cosa contribuisce a questo effetto protettivo tra le donne che hanno avuto figli, e che è legato al sistema immunitario. La scoperta potrebbe portare in futuro a nuovi approcci per prevenire alcune delle forme più aggressive di tumore al seno.
Già nel diciottesimo secolo si era osservato che tra le suore, che per la maggior parte non avevano partorito (nullipare), c’erano più casi di tumore al seno rispetto al resto della popolazione femminile. Questa circostanza aveva portato a sospettare che avere figli e allattarli al seno avesse un effetto protettivo, per quanto non fossero chiari i meccanismi che lo rendevano possibile. Nel corso del Novecento quell’osservazione fu presa in considerazione mettendo a confronto nullipare e donne che avevano avuto almeno un figlio (primipare) con studi più sistematici e analisi, che avevano confermato la minore incidenza di alcuni tipi di tumore al seno tra chi aveva avuto figli e li aveva allattati.
Era stato ipotizzato che i cambiamenti ormonali legati alla gravidanza, con l’interruzione dell’ovulazione, potessero essere la spiegazione principale al fenomeno. Altre ipotesi erano legate a una modifica nell’attività di parte del sistema immunitario, che diventava più abile nel riconoscere alcune forme di tumore al seno e nel contrastarle, ma non c’erano molti dati affidabili in merito.
Ora un gruppo di ricerca del Peter MacCallum Cancer Centre in Australia ha utilizzato un approccio multilivello basato sullo studio sia negli umani sia nei topi, confermando il ruolo centrale del sistema immunitario. La ricerca pubblicata su Nature ha compreso l’analisi del tessuto mammario sano di oltre 260 donne sottoposte a interventi per rimuovere in forma preventiva il seno o per ridurne le dimensioni. Dalle analisi è emerso che le donne che avevano avuto almeno un figlio avevano una proporzione significativamente più alta di linfociti T CD3+ e T CD8+, cioè di cellule immunitarie specializzate nell’identificare cellule infette o che si comportano in modo anomalo, come quelle tumorali.
L’analisi dei campioni ha portato inoltre a rilevare la presenza di linfociti T della memoria residenti nei tessuti (TRM), un sottogruppo di cellule immunitarie CD8+ che rimangono a lungo termine negli stessi tessuti, invece di circolare nel sangue. Queste cellule lavorano come se fossero delle sentinelle, che fanno la guardia e attivano una risposta quando rilevano cellule anomale che potrebbero portare a un tumore. Dalla ricerca è emerso che queste cellule possono persistere nel tessuto mammario a più di 30 anni dopo l’ultima gravidanza.
Il gruppo di ricerca ha inoltre verificato le funzionalità di queste cellule immunitarie nei topi, mettendone a confronto tre gruppi: femmine di topo vergini (gruppo di controllo), altre che avevano partorito ed erano state separate dai loro piccoli entro poche ore (allattamento minimo) e femmine di topo che avevano completato un intero ciclo di gravidanza, allattamento e svezzamento. L’analisi dei tessuti mammari ha evidenziato che solo le femmine del terzo gruppo avevano un accumulo significativo dei linfociti T che hanno un ruolo importante nel riconoscimento delle cellule tumorali.
Nei topi sono state poi impiantate cellule di alcuni tipi di cancro al seno e il gruppo di ricerca ha notato una crescita più lenta tra le femmine di topo che avevano avuto piccoli e li avevano allattati, rispetto a quelle che erano state allontanate dai loro piccoli e alle altre nel gruppo di controllo. L’effetto protettivo è stato completamente annullato quando i linfociti T CD8+ sono stati eliminati con un farmaco, a conferma del loro ruolo nel sopprimere le cellule tumorali.
Oltre ai campioni di tessuto mammario dalle donne e ai test sui topi, il gruppo di ricerca ha anche analizzato un’ampia serie di dati clinici per trovare ulteriori elementi. Le donne che avevano allattato al seno e successivamente avevano sviluppato un tumore al seno triplo negativo, una forma aggressiva resistente alle terapie ormonali, avevano una maggiore densità di cellule immunitarie nei tessuti tumorali rispetto alle donne che non avevano allattato.
Lo studio spiega che l’effetto protettivo reso possibile dai linfociti T è evidente in particolare nel caso di tumore al seno triplo negativo e per altri tumori che non rispondono agli ormoni. Sono forme meno frequenti di cancro al seno rispetto ai tumori a recettori ormonali positivi (che rappresentano l’80 per cento delle diagnosi), ma comportano spesso effetti più gravi e rendono necessarie terapie più aggressive per provare a eliminarli. L’effetto protettivo sembra essere inoltre cumulativo, quindi più a lungo si allatta, maggiore può essere il beneficio.
La ricerca è stata accolta con grande interesse soprattutto per la qualità dei risultati, basati su un approccio su più livelli, dalla sperimentazione in laboratorio agli studi clinici. Comprendere i meccanismi che portano a una protezione immunitaria contro un certo tipo di tumori è fondamentale per sviluppare nuove terapie più efficaci, o sistemi per la prevenzione come gli attesi vaccini contro i tumori. Nonostante i progressi, ci sono comunque diversi aspetti da chiarire. Per esempio, non è chiaro come mai si verifichi la persistenza delle cellule immunitarie dopo così tanti anni dalla fine dell’allattamento, né è ancora chiaro quali siano i processi che portano a una loro maggiore presenza in quella fase.



