Come si è arrivati dopo 45 anni a un arresto nelle indagini sull’omicidio di Piersanti Mattarella
L'ex funzionario di polizia Filippo Piritore è accusato di depistaggio: al centro di tutto c'è un guanto smarrito

Dopo 45 anni c’è stato uno sviluppo rilevante nelle indagini sull’omicidio di Piersanti Mattarella, presidente della Sicilia e fratello dell’attuale presidente della Repubblica che il 6 gennaio del 1980 fu ucciso a colpi di pistola davanti a casa sua a Palermo.
Lo sviluppo è che c’è un nuovo indagato che è stato messo agli arresti domiciliari: Filippo Piritore, ex funzionario di polizia che all’epoca indagò sull’omicidio e oggi è accusato di depistaggio nelle indagini. È rilevante non solo perché è notevole un arresto a decenni di distanza dai fatti, ma anche perché l’omicidio di Piersanti Mattarella è uno dei più grandi casi irrisolti della storia italiana: non si è mai saputo chi fosse l’esecutore, sebbene si stabilì nel processo che chiunque fosse stato avesse agito su ordine della mafia (diversi boss mafiosi furono poi condannati in via definitiva per il suo omicidio).
Da presidente regionale Mattarella fece del contrasto alla mafia e alla corruzione la sua principale ragione politica, in un modo inedito per l’epoca.
Piritore ha 74 anni, all’epoca dell’omicidio di Mattarella ne aveva 29. Negli anni successivi ebbe una carriera di rilievo nella polizia, diventando questore e prefetto in diverse città italiane (oggi è in pensione). L’inchiesta sui depistaggi in cui è coinvolto è relativamente recente: venne aperta nel 2017 dalla procura di Palermo per verificare l’ipotesi che le indagini sull’omicidio fossero state compromesse da persone appartenenti alle istituzioni.

Filippo Piritore nel 2010 (ANSA/LUCA ZENNARO/ DBA)
Piritore venne interrogato a settembre dell’anno scorso, ed è anche (ma non solo) a partire da quelle dichiarazioni che è accusato di aver «impedito, ostacolato e sviato» le indagini sull’omicidio, «affermando il falso o tacendo ciò che sapeva intorno ai fatti sui quali veniva sentito». Al momento comunque è solo indagato; l’arresto è stato giustificato con la possibilità di reiterazione del reato di cui è accusato, cioè che continui a dare false dichiarazioni per depistare le indagini.
Al centro dell’accusa a Piritore c’è un guanto: è quello che venne trovato nella macchina usata dagli assassini nell’attacco a Mattarella e ritenuto da sempre una prova centrale nelle indagini, anche perché fu una delle pochissime a disposizione. Oggi grazie ai nuovi metodi sull’analisi del DNA il guanto potrebbe essere decisivo per individuare i responsabili dell’omicidio, ma è stato perso (non è nemmeno chiaro quando di preciso). Il guanto in questione si vede in una fotografia che fu scattata all’epoca all’auto usata dagli esecutori dell’omicidio.

(Ansa/Polizia scientifica di Palermo)
Nella sua testimonianza del 2024 Piritore spiegò che fu lui a prendere in carico il guanto dopo il ritrovamento e descrisse i vari passaggi che fece in quei giorni, prima che venisse perso. Disse di averlo dato a un poliziotto della scientifica affinché lo desse al sostituto procuratore Pietro Grasso (l’ex presidente del Senato e politico noto), come aveva scritto in una relazione dell’epoca: sia il poliziotto che Grasso smentirono questa versione e dissero di non aver mai avuto il guanto (il poliziotto peraltro era in malattia). Poi Piritore disse di averlo dato a un altro poliziotto, un tale Lauricella, ma non risulta nessuno con quel cognome che abbia lavorato nella polizia scientifica.
In questi anni la procura di Palermo ha anche ricominciato a indagare sulle responsabilità dirette dell’omicidio, ma non ci sono sviluppi recenti: all’inizio di quest’anno si è saputo che ci sono due nuovi indagati, Antonino Madonia e Giuseppe Lucchese, due membri dell’organizzazione mafiosa Cosa Nostra che sono già in carcere da decenni e condannati all’ergastolo per molti omicidi (nel 1980 avevano rispettivamente 27 e 21 anni).
Il primo è accusato di aver commesso materialmente l’omicidio sparando sei colpi di pistola a Mattarella, il secondo è accusato di aver guidato l’auto con cui arrivarono nel luogo dell’uccisione.
Piersanti Mattarella fu ucciso davanti a casa sua, in via della Libertà a Palermo, mentre usciva con la sua auto (una Fiat 132) dal garage insieme alla moglie, ai due figli e alla suocera per andare a messa. Una delle prime persone che arrivarono per soccorrerlo fu suo fratello Sergio, che estrasse il corpo dall’auto: è un momento ripreso in una celebre foto scattata dalla fotografa Letizia Battaglia (morta nel 2022).
Le indagini sull’omicidio furono complicate fin dall’inizio, e le piste seguite si dimostrarono più volte inconsistenti: è il motivo per cui dopo decenni ancora si indaga e non è mai stato stabilito chi siano i diretti responsabili. Inizialmente l’azione fu rivendicata da un gruppo neofascista e si parlò per questo di attentato terroristico.
Le indagini successive, tra cui quella del 1991 portata avanti dal magistrato Giovanni Falcone, indicarono come esecutori materiali i neofascisti Giuseppe Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, ipotizzando però che avessero agito su ordine della mafia. Erano anni di frequenti attacchi terroristici da parte di gruppi di estrema destra ed estrema sinistra: l’ipotesi delle indagini fu che la mafia si fosse accordata con i primi per commettere l’omicidio.
Alla fine si stabilì che l’omicidio di Piersanti Mattarella fosse stato compiuto unicamente dalla mafia, anche per via delle testimonianze decisive dei collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta e Gaspare Mutolo. Furono condannati come mandanti i boss mafiosi Salvatore Riina, Michele Greco, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca, Giuseppe Calò, Francesco Madonia e Nenè Geraci.

La macchina in cui fu ucciso Piersanti Mattarella, davanti a casa sua a Palermo (ANSA)
Piersanti Mattarella era il fratello maggiore di Sergio, più grande di lui di sei anni (era nato nel 1935 a Castellammare del Golfo, in provincia di Trapani). Come Sergio fu esponente della Democrazia Cristiana. In Sicilia fu consigliere comunale a Palermo e poi come assessore regionale, prima di essere eletto nel 1978 come presidente con una larghissima maggioranza, la più ampia di sempre in Sicilia, a capo di una giunta di centrosinistra (era appoggiata anche dal Partito Comunista).
È un presidente molto ricordato, e già all’epoca si distinse particolarmente in quei due anni in carica per il suo approccio trasparente, molto duro verso la corruzione e soprattutto di aperta sfida alla mafia: sia nelle decisioni politiche, sia nell’indirizzare inchieste giudiziarie, sia nei discorsi pubblici.



