La salute mentale degli ucraini (e la mia)
«L’Ucraina è nel pieno di una vera e propria sessione di terapia collettiva, una “terapia nazionale” per cercare di restituire un basilare senso di sicurezza. Come se la guerra avesse fatto tornare bambina un’intera nazione»

Qualche tempo fa mi sono trovato in un centro per anziani durante una sessione di arteterapia. Ero a Mala Danylivka, un sobborgo di condomini popolari sovietici immersi nel verde a pochi chilometri da Kharkiv, nell’Ucraina orientale. Il fronte corre a poco meno di trenta chilometri da qui. Erano trascorsi quasi due anni esatti da quando, nell’agosto del 2023, mi ero lasciato tutto alle spalle per trasferirmi in Ucraina e lavorare come reporter freelance di guerra e la scena che avevo davanti mi era diventata ormai familiare.
In una stanza rinnovata di fresco al pianterreno di una chruščovka degli anni Sessanta, quattordici persone erano sedute intorno a un tavolo con le teste, in gran parte canute, piegate su fogli di carta. A parte il rombo di un paio di caccia ucraini diretti a bombardare più a nord, nella stanza si sentiva solo lo scricchiolare di pennarelli e, in sottofondo, una musica rilassante che faceva venire voglia di chiudere gli occhi e mettersi a dormire.
Olha Tkachova, la psicologa dell’ONG italiana Intersos che viene qui circa una volta a settimana, aveva chiesto ai suoi beneficiari, il termine tecnico per quelli che in un altro contesto sarebbero i suoi pazienti, di disegnare un albero ai cui rami, invece di foglie, sono appese le cose che portano felicità nella vita. Aveva dato anche un suggerimento: per disegnare l’albero si può partire tracciando il contorno della propria mano.
Lyudmilla Kovalenko, 68 anni, ha mostrato il risultato del suo lavoro. Il suo albero aveva tutti i colori dell’arcobaleno e ogni ramo terminava in due righe di ordinati caratteri cirillici che descrivevano semplici piaceri che ricorda da prima della guerra. «Passeggiare nel parco», legge, «Andare a dormire senza paura», «Non preoccuparsi per il futuro».
Pochi minuti dopo, seduti su dei puff in una stanza dai colori pastello, Kovalenko mi ha spiegato che sono tutte cose che ha perso da quando, lo scorso maggio, la sua casa è stata bombardata e suo figlio, 42 anni, è stato mobilitato nell’esercito ucraino. Ora tutto ciò che le resta sono l’ansia per la sorte di suo figlio e le poche cose che è riuscita a infilare in due borsoni di plastica prima di lasciare la sua casa in fiamme. Suo marito ormai quasi non si muove dal letto, dove resta incollato a leggere notizie sui canali Telegram nel tentativo di dare un senso a quello che sta succedendo a lui e alla sua famiglia. Per il momento, l’unico aiuto che ricevono dallo stato sono le loro pensioni: in tutto, circa 200 euro al mese.

Lyudmilla Kovalenko mostra la foto del suo appartamento distrutto (foto Davide Maria De Luca)
Tkachova, la psicologa, lavora con le vittime della guerra dal primo giorno dell’invasione. Ha iniziato con le organizzazioni di volontari che distribuivano cibo e medicine quando Kharkiv era sotto assedio. È rimasta in città fino alla liberazione, poi ha rispolverato la sua laurea in psicologia e ha trasformato il suo desiderio di aiutare gli altri in un lavoro. Qualche settimana fa un drone russo ha colpito il suo condominio in piena notte, un appartamento all’ultimo piano è andato in fiamme e l’intero palazzo è stato evacuato. Tkachova si è messa in salvo con sua figlia e si è ritrovata nella stessa situazione dei suoi beneficiari. Senza una casa, con una vita ridotta a quello che ha potuto infilare in una valigia quando la polizia le ha permesso di tornare per pochi minuti nel suo appartamento.
Per aiutare le persone che hanno perso tutto bisogna ripartire dalle cose più semplici, mi spiega. Come per esempio: trascorrere con loro un quarto d’ora in silenzio, ascoltando una musica serena e lasciando che la mente vaghi tra pensieri positivi. «A volte guardiamo insieme film per bambini. Emozioni semplici, positive. Di questo ha bisogno chi ha perso tutto».
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In Ucraina ho incontrato decine di psicologi come Tkachova e di pazienti come Kovalenko. La salute mentale è un tema di cui si sente parlare dagli ospedali di Lviv alle trincee del Donbas. Dopo tre anni dall’invasione e undici dall’inizio della guerra in Donbas, gli ucraini sono diventati un popolo familiare con il gergo tecnico della psicologia. Persino gli anziani nei paesini sanno cos’è un trauma, un ricordo intrusivo e conoscono elementari tecniche di rilassamento. Con la loro serenità mentale minacciata ogni notte, sono diventati esperti di patologie mentali e dei possibili rimedi.
Nei primi mesi di invasione, avevano persino nominato uno “psicologo in capo”. Così era conosciuto il controverso ex consigliere di Zelensky, Oleksiy Arestovych, che si era preso l’incarico di spiegare, giorno per giorno, in diretta sui social, l’andamento della guerra, di rassicurare la popolazione che il governo avrebbe continuato a lavorare e che Kyiv non sarebbe caduta. Fino a quando non ha perso la fiducia di Zelensky, Arestovych è stata la rassicurante voce paterna per milioni di persone alla disperata ricerca di una roccia a cui aggrapparsi.
Oggi, quasi ogni bando umanitario internazionale che riguarda l’Ucraina include tra le richieste alle organizzazioni che interverranno quella di fornire ai potenziali beneficiari un supporto psicologico. A Kharkiv Intersos, la ong italiana per cui lavora Tkachova, porta avanti un progetto di protezione umanitaria finanziato dall’Unione europea. Insieme a due operatori sociali, viaggia di paese in paese, a volte indossando elmetto e giubbotto antiproiettile quando arriva vicino al fronte. L’intero paese è attraversato da queste squadre di terapisti d’assalto, psicologi itineranti che arrivano persino nei luoghi più impensabili, a costo di difficoltà e pericoli personali. Penso che si possa dire senza timore di smentita che in nessuna crisi umanitaria prima dell’Ucraina la salute mentale delle vittime del conflitto è stata così al centro dell’attenzione.
L’Ucraina è nel pieno di una vera e propria sessione di terapia collettiva, una “terapia nazionale” che consiste essenzialmente nel tentativo di restituire un basilare senso di sicurezza. Una ricostruzione che comincia rosicchiando pezzetti di normalità alla tensione costante, il che spesso prende la forma di quindici minuti trascorsi ad ascoltare una musica rilassante disegnando con pennarelli colorati, o a guardare un cartone animato. Come se la guerra avesse fatto tornare bambina un’intera nazione.

Una seduta di arteterapia a Mala Danylivka (foto Davide Maria De Luca)
Quando mi sono trasferito in Ucraina anche io, in qualche modo, sono tornato bambino. Da piccolo ero uno di quei ragazzini un po’ solitari che al calcio preferivano i soldatini, impazzivo per le divise militari e i film di guerra – era una passione innocente, non ho mai avuto il culto della guerra, né ho mai pensato di fare il militare, un po’ come un fan del true crime che non necessariamente cova il desiderio di diventare un serial killer.
Crescendo la passione è rimasta, e leggendo i reportage di Tiziano Terzani dal Vietnam ho deciso di farne una professione. Ma per varie e complesse ragioni la guerra, questa grande avventura infantile, prima dell’Ucraina l’ho a lungo avvicinata – in Sri Lanka, pochi mesi dopo la fine della guerra civile, in cerca dei crimini di guerra commessi dall’esercito di Colombo contro i ribelli, in Kosovo sulle tracce dei miliziani partiti per arruolarsi in Medio Oriente, in Kurdistan durante la repressione militare di Erdogan – senza mai entrarci veramente. Quando nel maggio del 2023 sono arrivato per la prima volta in Ucraina mi sono sentito un bambino che coronava il sogno della sua grande avventura.
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E così come me la guerra aveva fatto tornare bambini milioni di altri europei. Il potere dei conflitti si estende al di là del campo di battaglia, non serve trovarcisi in mezzo per sentire l’attrazione che ci spinge verso emozioni primordiali: rabbia, paura, odio. E d’altronde quali altre emozioni potremmo provare di fronte al dolore, alla morte, alla distruzione senza scopo?
A Vesele, un altro paese ancora più vicino al fronte, dove sono stato con Tkachova e la squadra di Intersos, una donna ha iniziato a singhiozzare durante la sessione di disegno. Ha raccontato di essere rimasta sola, di aver quasi completamente perso la vista e di non poter arrivare nemmeno al comune vicino per visitare il mercato. Era lontana dall’essere la peggiore storia che ho sentito in questi anni, ma per un istante mi ha lasciato comunque sopraffatto. Ho sentito il desiderio di scappare in qualche posto lontano e remoto, di tirarmi una coperta sopra la testa per ignorare tutto questo dolore insensato.
Ma qui si ferma l’utilità della nostra metafora. Perché né noi né gli ucraini siamo davvero tornati bambini a causa della guerra. Ci accomunano molte cose, tra cui quella di essere adulti responsabili delle proprie azioni, con agende e interessi. Ma restiamo anche separati gli uni dagli altri, come noi europei restiamo separati da tutti gli altri esseri umani intrappolati nell’ingranaggio di una guerra. Per quanto possiamo essere coinvolti e partecipi, per quanto possiamo sentire di avere cose in comune, persino quando decidiamo di vivere con e come loro, da qualche parte ci rimane un paese, una casa, una famiglia che non sono in pericolo immediato.
Dove collocare esattamente questa separazione, questa barriera, e che cosa comporta, ognuno lo sceglie per conto suo. Ma per noi che facciamo informazione per mestiere, è più importante che per altri. Una vecchia regola del giornalismo dice di tenere i fatti separati non solo dalle opinioni, ma anche dalle emozioni. Se finiamo troppo coinvolti nelle nostre storie finiremo per raccontare ciò che proviamo, non quello che vediamo. E, se le distinzioni hanno ancora un senso, i giornalisti non sono né poeti né attivisti.
Certo, è difficile tenere a bada l’entusiasmo infantile che l’avventura della guerra produce: l’eccitazione per le vittorie, la curiosità per le innovazioni tecnologiche, per le tattiche astute – per me di sicuro lo è stato; ed è difficile gestire il desiderio di provare quel che prova chi ci circonda, di identificarsi con la sua storia – e più è tragica la vicenda, più forte è la pulsione.
Ma se ha ancora senso raccontare i fatti, che lasciati a sé stessi non hanno una voce, e non solo le emozioni, che sanno farsi sentire benissimo da sole, allora c’è ancora una buona ragione per tenere fede alla vecchia regola – per quanto cinica possa sembrarci. Per ricordarci che se anche la guerra ci spinge a tornare in uno stadio quasi infantile non siamo più bambini. E non lo sono nemmeno gli ucraini.
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