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  • Mercoledì 15 ottobre 2025

A Palermo serve veramente l’esercito?

Se ne parla dopo l’omicidio di Paolo Taormina, avvenuto per strada, ma secondo le associazioni cittadine e non solo non è una soluzione

La fiaccolata organizzata per ricordare Paolo Taormina, ucciso sabato notte a Palermo
La fiaccolata organizzata per ricordare Paolo Taormina, ucciso sabato notte a Palermo (Ansa/Igor Petyx)
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L’omicidio di Paolo Taormina, un ragazzo di 21 anni ucciso sabato notte in centro a Palermo dopo aver tentato di fermare una rissa, ha rafforzato l’indignazione e l’esasperazione di migliaia di abitanti della città che negli ultimi mesi hanno chiesto allo Stato di intervenire in modo più deciso contro la violenza diffusa soprattutto tra i giovani. Domenica sera oltre duemila persone hanno partecipato a una fiaccolata spontanea, altre migliaia hanno manifestato lunedì sera. «Basta morti senza senso», si leggeva su uno striscione con le facce di Massimo Pirozzo, Andrea Miceli e Salvatore Turdo, uccisi a Monreale alla fine di aprile.

Già poche ore dopo l’omicidio, quando ancora non era chiaro cosa fosse successo, la maggior parte dei politici ha individuato nella mancanza di controlli l’origine degli omicidi, delle ripetute aggressioni, delle sparatorie e delle risse, più in generale dell’insicurezza in città. Quasi tutti – specialmente gli esponenti della destra – hanno chiesto una presenza maggiore di polizia e carabinieri nelle strade del centro e alcuni hanno detto che l’unica soluzione a questa violenza è schierare pattuglie dell’esercito.

Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha raccolto queste sollecitazioni e fissato per mercoledì un incontro con il sindaco di centrodestra Roberto Lagalla. Piantedosi metterà a disposizione più agenti delle forze dell’ordine e sta valutando l’istituzione di nuove zone rosse, all’interno delle quali la polizia possa vietare l’accesso a persone ritenute pericolose. Le prime risposte sono quindi interventi securitari, molto simili a quelli già adottati in passato dopo fatti di cronaca simili, giustificati dall’emergenza che tuttavia non è emergenza, perché dura da molti anni.

Chi da anni lavora nei quartieri, come gli esponenti di diverse associazioni sentiti dal Post, sostengono che i controlli non possano essere l’unica risposta, men che meno l’arrivo dell’esercito in città. Anzi, l’impulso a chiedere più agenti per le strade dimostrerebbe la scarsa comprensione di un fenomeno ormai troppo radicato, conseguenza di un’indifferenza sistematica nei confronti delle richieste degli abitanti, della mancanza di spazi di aggregazione e ascolto per le persone più giovani, in definitiva dell’abbandono di molti quartieri.

Fabrizio Arena è presidente di Zen Insieme, un’associazione che dalla fine degli anni Ottanta lavora per aiutare gli abitanti dello Zen, il quartiere dove abita Gaetano Maranzano, il 28enne che ha confessato l’omicidio di Paolo Taormina. È dello Zen anche Salvatore Calvaruso, che ha confessato il triplice omicidio di Monreale. «Il nostro lavoro purtroppo non basta», dice. «Il terzo settore dovrebbe avere una funzione complementare al sistema di servizi pubblici, invece la nostra è una funzione totalmente sostitutiva perché qui lo Stato non è riuscito o non ha voluto inserirsi nei vuoti di potere creati dalla lotta alla criminalità organizzata, lasciando molti quartieri nell’abbandono».

La maggior parte delle persone che abitano allo Zen occupa le case popolari nei palazzoni costruiti negli anni Settanta dall’Istituto autonomo case popolari (IACP). Nel 2015 il cosiddetto decreto “Lupi” vietò a chi occupa case di ottenere la residenza e di avere contratti di fornitura elettrica: da allora quasi tutte le persone che abitano allo Zen hanno perso appunto la residenza, e di conseguenza diritti essenziali come l’assistenza sanitaria o qualsiasi tipo di sostegno. Questa situazione di marginalità diffusa ha favorito la costituzione di una sorta di Stato parallelo gestito dal crimine organizzato, che garantisce servizi minimi al posto dell’amministrazione comunale.

L’assenza delle istituzioni è evidente anche dall’aspetto del quartiere: non ci sono piazze, aree pedonali, giardini, aree giochi. Uno degli spazi più grandi del quartiere che era stato pensato come una piazza oggi è una collina di rifiuti alta diversi metri. In teoria avrebbe dovuto chiamarsi “il giardino delle civiltà”, in realtà è conosciuto come il “montarozzo”. «Quali vantaggi, quale benessere porta la militarizzazione di quartieri come lo Zen? Non risolve la violenza, la sposta solo per poco tempo», dice Lara Salomone, che lavora allo Spazio Donna Zen, aperto nel 2014 per favorire l’autonomia e l’autodeterminazione delle donne del quartiere.

Secondo Salomone, le risposte date dalla politica ignorano la causa più profonda della violenza, ovvero che molti giovani vivono in condizioni che ostacolano le loro prospettive di vita, e se la loro vita perde valore finisce per perdere valore anche la vita degli altri. «Siamo arrivati al punto che uccidere una persona conta poco: le istituzioni dovrebbero interrogarsi su questa deriva».

Salvatore Cavaleri, coordinatore dell’area minori della fondazione Don Calabria che per 10 anni ha fatto l’educatore di strada allo Zen, dice che la retorica della sicurezza serve alla politica per creare stigmi nei confronti di alcuni quartieri e in qualche modo autoassolversi, ignorando il nesso tra l’assenza di servizi essenziali e la violenza. Questa situazione è stata favorita anche da quella che è stata raccontata come la “rinascita” della città, oltre che dalla turistificazione che ha amplificato il divario tra il centro e le aree più periferiche. «Questa visione ha fatto passare il concetto che i problemi di alcuni quartieri siano congeniti, irrimediabili», dice. «In questo modo la colpa ricade sempre sugli abitanti».

Più concretamente, Cavaleri spiega che negli ultimi quindici anni a Palermo c’è stata una progressiva privatizzazione del welfare, cioè dei servizi di assistenza, che hanno dovuto fare i conti con sempre meno investimenti pubblici e una massiccia privatizzazione. «Chi lavora nei quartieri fa sempre più fatica perché ci sono pochi mezzi per costruire percorsi stabili nel tempo, che siano di educazione o anche solo di semplice aggregazione. Abbiamo le spalle sempre meno coperte».

Esistono anche esempi positivi, come la collaborazione tra associazioni e scuole creata nel quartiere della Kalsa, dove si ha una maggiore consapevolezza dei problemi grazie al contatto diretto con molti giovani del quartiere, con i servizi sociali e le scuole. È però un lavoro che viene da lontano, molto faticoso perché costante. In altri quartieri invece questa collaborazione non esiste oppure è debole, e il comune fa poco o nulla per sostenerla.

«Palermo si sta impoverendo economicamente e culturalmente», dice Fausto Melluso, presidente di ARCI Palermo. «Questa violenza è il risultato di un abbandono che dura da decenni». Tra le opportunità mancate Melluso cita la scarsa valorizzazione dei beni confiscati alla mafia. Palermo è la città che ne ha di più, ma pochi edifici vengono davvero sfruttati. «È un patrimonio pazzesco, che potrebbe essere simbolo e strumento di riscatto, invece si è investito poco e male». Parlare di esercito e più controlli, secondo Melluso, è un modo per continuare a investire nella paura e alimentare i problemi invece che affrontarli.

L’assenza delle istituzioni ha effetti sulle famiglie e direttamente su ragazzi e ragazze nel periodo dell’adolescenza, come dimostrano i tassi di dispersione scolastica che in alcuni quartieri arrivano al 23 per cento. Gli adolescenti che non frequentano più la scuola sono più vulnerabili, esposti al coinvolgimento nel sistema criminale. Anna Ponente, psicoterapeuta e direttrice del centro diaconale “La Noce”, un istituto valdese, dice che moltissimi giovani sono “invisibili” a qualsiasi tipo di punto di riferimento nei quartieri. «Mancano servizi sociali, servizi sanitari e educativi che accompagnino i giovani in modo stabile. La violenza che vediamo mostra chiaramente che c’è un’incapacità di regolare gli affetti e le emozioni, conseguenza di una mancanza di ascolto e sostegno. Noi cerchiamo di fare il nostro lavoro nel migliore dei modi, ma non basta».

Tutte le esigenze dichiarate da chi lavora nelle associazioni comportano un lavoro molto lungo e complesso, che anche se iniziasse oggi avrebbe effetti tra molto tempo.

Anche Lia Sava, la procuratrice generale di Palermo, non crede che la presenza dell’esercito nelle strade delle città sia la soluzione. Intervistata da Repubblica, ha detto che occorre creare piazze, servizi minimi essenziali «e tutto ciò che può mostrare il bello a persone che non riescono più a immaginarlo. Occorre costruire centri sportivi, associazioni musicali, dare come alternativa sana alle pistole una partita di calcio o il suono di uno strumento musicale». Secondo Sava, bisogna coinvolgere maggiormente gli adulti e le famiglie e chiedersi se queste educano i figli al rispetto delle regole e degli altri. «Non è che per caso questi valori le famiglie non li trasmettono perché li hanno smarriti?».